"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 30 dicembre 2013

Cosecosì. 64 “La letterina”.



La bambina (…) (a)ttende il suo turno in fila con la letterina in mano. La mamma la guarda orgogliosa. Ha certamente lasciato il Suv nel più vicino posteggio riservato ai disabili. Al cospetto del ciccione in rosso, gli altri bambini si emozionano. Lei, no. Lo scruta dal basso con due occhi di brace: "Tutto 'sto tempo in coda al freddo per 'sta lettera del cavolo!". Babbo la fissa senza capire. La piccola attacca: "Con tutti i soldi che fai, perché non ti sei comprato un telefonino?". "Perché, scusa?". "Perché ti mandavo un sms. È da scemi aspettare qui al freddo". "Va be', ma almeno ci siamo conosciuti". "Ma tu sei vecchio e se ti ammali poi schiatti e non mi porti più niente". Bambini e genitori in fila scoppiano a ridere, la mamma del mostro batte la mani. Babbo Natale arrossisce e china la testa. Anch'io chiudo gli occhi. Vorrei tanto che quest'anno la notte della vigilia quell'uomo si togliesse il suo ridicolo costume per infilarsi una tuta da fatica gialla. Vorrei che lasciasse in Lapponia la slitta insensata e le sue stupide renne a brucare i loro licheni immangiabili, per volare nel cielo su un grande camion giallo dei traslochi con la scritta Gondrand sulla fiancata. Vorrei che entrasse in casa della bambina (…) e della sua mamma cattiva mentre dormono e caricasse sul camion tutto ciò che possiedono. La mattina dopo si sveglierebbero in stanze svuotate, spogliate di arredi, giochi, gioielli. E con raccapriccio mi sorprendo a invidiarle. (…). Così scriveva Giacomo Papi sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica del 21 di dicembre dell’anno 2011. Titolo di quel “pezzo”: “La letterina”. Ho atteso che il Natale passasse per proporla a chi non l’avesse a suo tempo letta. L’ho fatto per non essere colto in fallo ed essere indicato come un vecchio brontolone per il quale nulla più gira per il verso giusto. Alla fine non ho resistito ed ho ripreso quel ritaglio gelosamente custodito. Il Natale 2011 è trascorso già da un pezzo. L’ultimo, quello del 2013, è già caduto nel dimenticatoio. Come tutte le cose di questa società fondata sull’illusionismo. Poiché è facile ed a buon prezzo illudersi d’essere buoni e migliori a feste comandate. Ma quella “letterina” di Giacomo Papi contiene in verità qualcosa che sarebbe da considerare “straordinario” solo che potesse accadere: l’auspicio che quel “ciccione in rosso” portasse via dalle nostre vite tutta quella paccottiglia d’inutilità che siamo andati negli anni raccogliendo per il perverso gusto di avere e poi di avere e di possedere. È il motivo per il quale ho atteso che il Natale passasse per proporre la “letterina” di Giacomo Papi. Per non essere indicato come il “bastian contrario”, l’inutile brontolone di turno. Ché, seppur questo Natale sia stato in tono minore - se non deficitario - in quanto a regali e spese voluttuarie, grazie o per colpa della “crisi” secondo i punti di vista, questo Natale ha conservato gli schemi mentali e le consuetudini che si sono oramai radicate nelle un tempo opulenti società dell’Occidente. È che ad esso, al Natale, la più grande fetta della società non è capace di dare una impronta diversa che sia per la qual cosa, seppur deprivato dello sfarzo dei consumi all’ingrosso delle annate precedenti, permane una ricorrenza che per i più ha un significato “scipito” e senza spiritualità. È che, in fondo, riesce difficile oggigiorno dare un senso ad una ricorrenza che proviene dalla notte dei tempi. E che difficilmente riesce a gettare una “luce” che sia veramente viva agli uomini del secondo millennio. Ha scritto Marco Vannini sul quotidiano la Repubblica del 24 di dicembre col titolo “Natale mistico”: Si capisce (…) come la chiesa cerchi di (…) ravvivare quella fede che una volta si riteneva fondata su reali eventi storici, ovvero sulla “storia della salvezza” che da Adamo procede verso Cristo. Oggi, (…), dal momento che quella storia appare per ciò che è, una mera costruzione mitico-teologica, la fede si è ridotta a una combinazione di sentimento più fantasia: una cosa da bambini, dunque. Non a caso ai nostri giorni il Natale è festa non solo per un Bambino, ma soprattutto per bambini. La fede è (…) una credenza, che si difende con una sorta di infantile testardaggine, ignorando la realtà, tanto storica quanto psicologica. Se invece la fede è volontà di verità, essa guarda in faccia la realtà , scoprendo che quella credenza è desiderio di consolazione e rassicurazione, frutto del desiderio di permanenza di un ego che si sente debole e incerto e che perciò cerca “salvezza” nel rimando ad altro fuori di sé, restando così sempre nell'attesa, nell'anelito. La fede allora non produce affatto credenze ma, al contrario, le toglie via tutte, smascherando come menzogna anche l'immaginazione teologica. La fede - scrive san Giovanni della Croce - “non solo non produce nozione e scienza, ma anzi accieca e priva l'anima di qualunque altra notizia e conoscenza: la fede è notte oscura per l'anima e, quanto più la ottenebra, tanto maggiore è la luce che le comunica”. Fede come notte, dunque, ma una notte che mentre libera da ogni presunto sapere di verità esteriori, fa risplendere una luce interiore, sapere non di altro ma di se stessa, sapere che è un essere: questa, possiamo dire, è la vera stille nacht, heilige nacht, notte silenziosa, notte santa. (…). Una “coscienza” della fede che non c’è. Ché solo una fede che sappia far “risplendere una luce interiore” porterebbe a considerare la condizione propria non come uno stato di “grazia” precluso a chi la fede non possiede ma come un irrisolto bisogno “di consolazione e rassicurazione” al pari della famosa coperta di Linus. E solamente così potrebbe conciliarsi con una “fede” rinnovata un Natale che non avesse ad improprio, blasfemo supporto i “consumi” che, con somma disperazione dei più, stentano a riavviarsi. Ha chiuso Giacomo Papi la Sua “letterina” dell’oramai lontanissimo Natale dell’anno 2011: Rispose a un giornalista, la notte del 24 dicembre 1989, il vecchio poeta Junichiro Kawasaki: "Sono animista. Non mi serve il Natale". Già, un Natale così non serve poi mica tanto!

martedì 24 dicembre 2013

Sfogliature. 20 “La gerarchia ecclesiastica e i cambiamenti della società”.



Incombe il “Natale”. Quello dei credenti che coinvolge anche chi credente non lo sia. Un “Natale”, forse, con minori fasti e soprattutto con minori consumi rispetto ad un passato ancora molto recente. Non per scelta libera però. La “crisi” incombe e determina stili di vita nuovi è più misurati. La “fede” non ha indotto codesti nuovi atteggiamenti di fronte all’opulenza ed agli sprechi del passato. Opulenza e sprechi non più a tiro dei tanti. Ma un ritorno all’essenzialità di una fede, di qualsivoglia fede, sarebbe di già un buon segno. Farà piacere al nuovo vescovo di Roma. Ho ritrovato, alla data del 20 di marzo dell’anno 2007 – alle pagine 2166-2168 dell’e-book sopravvissuto al blog allora su di una diversa piattaforma della vasta rete – un post senza un titolo della serie “Se il divino diviene il problema”, contraddistinto col numero 25. Di seguito lo ripropongo nella sua interezza.

Tralascio il panegirico che ho sempre preposto alle molto autorevoli opinioni riportate in questa rubrichetta. Una scelta di merito. O di campo. Scelta forzata. Considerata la durezza e cupezza dei tempi. Una domanda: ma come è possibile far credere ai buontemponi, o meglio ai candidi in ispirito, ai soliti gonzi,  che la famiglia interessi solamente ai cattolici? Domanda retorica, invero. Come se tutti gli altri, delle altre confessioni o chi una confessione non ce l’abbia, fossero dediti a distruggere le famiglie come in un orrendo gioco al massacro. Un tiro al bersaglio: la famiglia, pum, pum! Ridicolo. È che, aver barbaramente mediatizzato il tutto, la vita pubblica e la vita privata dei cittadini, comporta pur delle conseguenze; non esiste più distinzione alcuna tra le due sfere, tutto si intreccia e tutto si confonde, ed allora la professione della propria fede non si fa più nell’ambito della vita quotidiana e privata, ma sul grande schermo della vita pubblica, con o senza il monitor dell’orrendo elettrodomestico. I grandi insegnano, grandi si fa per dire. Conducono una vita privata da scandalo, ma predicano per gli altri ben più saggi, virtuosi e pii comportamenti. In alcuni casi consigliano la pratica del cilicio. Da Medioevo. Oscurantismo assoluto. Un ritorno alle pire fumanti. Non esiste un privato. Esiste un banale, grottesco  fatto pubblico. Alla mercé di tutti. Senza anima. La fede del singolo oggi, nell’era della comunicazione di massa più spinta, si sostanzia non nella dura, onesta pratica quotidiana, con la messa in opera, con difficoltà a volte, delle proprie convinzioni, nel rigetto di tutto ciò che possa entrare in conflitto con essa, ma solamente con quel si blatera, a vanvera, comandati a bacchetta, per rifugiarsi rapidamente nel comodo privato che è libero da condizionamenti di alcuna specie, confortevole assai, ed in difesa del quale si invoca costantemente il rispetto della riservatezza. Durezza dei tempi. La fede del singolo non esiste, non vale molto nel gran mercato. Val bene quella fede diffusa e mediatizzata convenientemente, con proclami roboanti, con mulinar di ferri, solo virtuali per carità, con proclami ed editti di altri tempi. La ricerca del demonio. Ecco un ritorno interessante. Un demonio moderno però. Senza corna, coda. Difficile delinearne l’effigie. Il relativismo, il laicismo. Tutto ciò che non rientra in certi orizzonti. E dietro ai proclami, la virtù individuale che non esiste, la fede del singolo che si rifugia, si protegge, si maschera dietro i proclami assordanti dei moderni comunicatori. Esempi recenti già visti e passati, di gran prestigio sociale, di grande ricaduta mediatica. Capire i tempi ed adeguarvisi. Con tutto ciò che ne segue. Ho conosciuto persone, degnissime, che conducevano una doppia vita affettiva, in casa e poi magari nell’ambito del posto di lavoro. Nulla di cui scandalizzarsi. Certe scelte possono sempre essere rimesse in discussione, si capisce. Ciò che mi colpiva di quelle persone la loro incrollabile professione di fede, ritualizzata quanto si voglia, enfatizzata, esasperata anche, esteriorizzata ben bene alla domenica ed alle altre feste comandate, mai interiorizzata con il proprio vissuto quotidiano, in lotta essa con questo, in contraddizione stridente, e che esse riuscivano a far convivere con quella abnorme duale vita affettiva. Abnorme, almeno ai miei occhi di non credente. Beati i poveri in ispirito! Sarà loro il regno dei cieli! Forse perché obbedienti. Ossequienti. Quanto credibili e coerenti è poca cosa. In tempi diversi avrei sperato nella maturità del “cattolico quotidiano”, così come ce lo rappresenta l’Autore nell’analisi di seguito riportata; ma, considerati i precedenti e la mediatizzazione delle vite pubbliche e private, mediatizzazione  spinta all’ennesima potenza, un brivido mi corre per la schiena. Saranno i ritorni imprevisti dei rigori invernali? Lo spero tanto. Mi riesce peraltro difficile imbarcarmi in una disquisizione sulla laicità dello Stato, in un’opera di ragionamento, peggio di convincimento: ma cosa si è sempre pensato, detto e scritto sul senso di appartenenza del cittadino quotidiano, della sua “stentatella cittadinanza”, ben espressa nel quotidiano arrancare e nel rifugiarsi nel  caldo e sicuro e più arretrato familismo? Staremo a vedere, assisi sulla sponda da questa parte del Tevere. Prospettiva da incubo, in verità! “Tempus edax rerum”. Il tempo divora le cose. O forse meglio è “Tempus omnia medetur”. Il tempo rimedia, cura tutte le cose. Guarisce tutti i mali. Ma fra quanti anni, lustri, secoli, la guarigione? Così  solevano dire i latini! Da “La gerarchia ecclesiastica e i cambiamenti della società” di Marco Politi. …l’Italia è la trincea di Dio, (…). Se la famiglia rischia la rovina, allora è urgente negare il riconoscimento alle coppie di fatto. Se il rapporto naturale tra uomo e donna sta franando, allora è missione divina cancellare la pubblica accettazione del patto d’amore tra due partner gay. Bisogna andare alle radici culturali dell’atteggiamento di Benedetto XVI per capire la durezza dello scontro in atto, che ha per posta la laicità dello Stato. O, per essere più semplici, il diritto dei cittadini tutti di farsi democraticamente le leggi senza attendere il timbro di un’autorità confessionale. Perché la sfida culturale è questa: evitare di ripiombare nel XXI secolo in guerre di partiti religiosi, ognuno dei quali brandisce il nome di Dio per richieste non negoziabili. Laddove la politica è negoziato, confronto, anche compromesso tra diverse visioni del mondo. Dice Ratzinger al clero romano che la ‘fede in Italia è minacciata’. Parole pesanti. (…). Ma papa Ratzinger è ancora più pessimista. – Siamo di fronte ad una multiforme azione, tesa a scardinare le radici della civiltà occidentale -. (…). Corrisponde questo atteggiamento allo stato d’animo dei milioni di cattolici quotidiani, che vanno a messa, si impegnano in parrocchia, pregano, riflettono su Dio e la propria esistenza e comunque, con minore o maggiore pratica, si sentono parte della comunità dei cristiani? No. Va detto con assoluta franchezza. Quando da alti pulpiti si sente risuonare minacciosamente ‘Non possumus‘, andrebbe subito domandato: non possumus chi? Il cattolico quotidiano del Duemila vive tranquillamente accanto ai diversamente credenti, senza complessi da stato d’assedio, senza l’ossessione di imporre la propria visione. E tutta la questione delle convivenze di fatto e delle stesse coppie gay è vissuta da anni molto serenamente, pragmaticamente, con umana sensibilità dalla maggioranza degli italiani a qualunque credenza si richiamino. Perché una cosa è chiarissima: la vicenda delle unioni civili non è uno scontro tra cattolici e laici. Non è oggetto di una guerra tra fedi. Ciò che emerge è il gap tra la gerarchia ecclesiastica e la società italiana come è nella realtà. Per i cattolici quotidiani, e gli altri, le coppie di fatto non sono un astratto drago rovina-famiglie. Sono i nostri figli, i nostri amici, spesso noi stessi. Uomini e donne in carne e ossa, senza ideologie, con la fatica dell’esistenza e il desiderio di essere un po’ felici. E le aborrite unioni gay le incontriamo a cena, sui posti di lavoro, nei luoghi dove passiamo le nostre vacanze. E sono normali cittadini e normali conviventi. (…). In altre parole hanno impostato la propria vita secondo regole diametralmente opposte a quelle ossessivamente indicate per decenni dalla gerarchia ecclesiastica. E ciò nondimeno continuano il loro dialogo con Dio, vanno a messa, e spesso si impegnano in iniziative ecclesiali. Il problema, allora, non è la Chiesa, la comunità dei fedeli. Il problema è di una gerarchia ecclesiastica incapace di guardare con umanità ai problemi di una società in trasformazione, in cui la famiglia è radicalmente diversa da quella di cinquant’anni fa. Una gerarchia che pretende di rappresentare in politica i cittadini cattolici, che né esistenzialmente né politicamente hanno dato all’istituzione ecclesiastica un mandato del genere. (…).

Rinuncerà il novello vescovo di Roma all’intransigenza che ha contraddistinto le passate gerarchie vaticane? È solamente su queste basilari questioni, che interessano milioni di cittadini, uomini e donne con la “fede” vissuta o senza la “fede”, che si potrà cominciare a parlare di una rivoluzione che si sia messa molto lentamente in movimento aldilà del Tevere.

venerdì 20 dicembre 2013

Capitalismoedemocrazia. 43 “Nell’epoca della nuova povertà”.



Ha scritto Andreas Whittam-Smith  sul quotidiano The Independent - “Malvenuti nell’epoca della nuova povertà”, riportato su “il Fatto Quotidiano” del 14 di dicembre -: Fino a tutto il 18° secolo, l’“indigenza” – così veniva chiamata la povertà – era considerata una condizione naturale dell’umanità da cui ci si poteva affrancare attraverso il lavoro o l’altrui generosità. Oggi invece puoi avere un lavoro ed essere povero. Questi “nuovi poveri” sono le vittime del crollo dei salari e del vertiginoso aumento dei prezzi, un fenomeno che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni dell’economia. In genere il “nuovo povero” percepisce un salario assolutamente insufficiente a soddisfare i bisogni primari dell’esistenza. Sfortuna vuole che non si veda affatto la luce alla fine del tunnel. La nuova tecnologia digitale non farà che distruggere altri milioni di posti di lavoro. La globalizzazione continuerà a trasformare il pianeta in un unico mercato che consentirà al lavoro di migrare dove è meno pagato. Ne consegue che i salari continueranno ad aumentare in misura sempre inferiore all’aumento dei prezzi almeno nel breve-medio periodo. Nelle vecchie società affluenti dell’Occidente ciò comporterà un incremento del divario tra ricchi e poveri e la povertà continuerà a galoppare. In fondo basta mettere questi dati di fatto in fila per capire che i governi hanno scarsissime possibilità di intervento su dinamiche completamente al di fuori della loro portata. (…). Fine della citazione. Che apre orizzonti non proprio rassicuranti. E che mette il dito nella piaga. Laddove la politica ha finito d’essere protagonista nell’indirizzare l’economia e la finanza affinché il tutto sia organizzato per il cosiddetto “bene comune”. È che la politica è stata anch’essa abbacinata dall’idea insana dei mercati regolatori delle dinamiche economiche e sociali. Donde la “crisi”. Che tranne per i soliti buontemponi al governo non accenna a mostrare un che di rallentamento che sia se non di una auspicata inversione. Donde “la luce alla fine del tunnel” è di là da venire. Ma non è questo il punto. Come non vedere, quando c’era ancora da vedere, che la globalizzazione, così come si andava configurando, avrebbe indotto fenomeni nuovi e dirompenti nell’assetto delle società cosiddette avanzate? È che i mercati agiscono da che mondo è mondo sempre in ragione della “rapina”. “Rapina” che è da vedersi in ragione dello sfruttamento delle risorse naturali e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Oggigiorno nuovi scenari ha aperto la globalizzazione, ché solamente la cecità della politica non ha consentito di vedere al tempo dovuto. Essa, la globalizzazione, ha agito ed agisce così come aveva intuito quel grande che è stato il Liebig. Poiché le cose intuite dall’illustre scienziato per i fenomeni della Natura valgono per l’appunto anche nelle vicende degli umani. Come non vedere al giusto tempo che la globalizzazione avrebbe introdotto nelle società dell’Occidente quel “fattore limitante” per il quale, come in un mastello la doga più corta determina il livello al quale il liquido può in esso essere raccolto, così il “fattore limitante” – conseguenza di una sfrenata, incontrollata globalizzazione - dei bassi o bassissimi salari dei paesi poveri divenuti emergenti, l’assenza di ogni forma di tutela sociale e del lavoro, avrebbe, quel “fattore limitante”, investito e colpito anche le cosiddette società del capitalismo avanzato? Con la sua logica sfrenata, con il falso assunto che i mercati sarebbero stati capaci di autoregolamentarsi, la globalizzazione e la finanziarizzazione del capitalismo ha provveduto a spolpare le ricchezze e le risorse delle società occidentali per le quali si aprono scenari chiari di un ritorno ad un’epoca nuova di povertà. Ma se c’è stata una cecità della politica come non vedere di pari passo anche una cecità nel mondo della finanza e dell’economia? Avere impoverito grandi masse nel mondo dell’Occidente capitalistico, avere di fatto spinto all’indietro una spessa fetta di quello che è stato il “ceto medio” delle società avanzate ha di conseguenza tolto dalla scena quei nevrotici “consumatori” che oggigiorno si invocano inutilmente affinché riprendano a sostenere i consumi per consentire il riavvio della cosiddetta “ripresa”. Un bel modo per continuare ad essere ciechi sempre di più. E si ha un bel dire che  si intravede “la luce alla fine del tunnel”. Anche nella prosperosa America il rientro delle attività di produzione delle multinazionali, che qualche tempo addietro avevano abbandonato quei mercati per produrre altrove le loro mercanzie, quel rientro avviene solamente a seguito di un ridimensionamento dei salari e degli stipendi secondo quel “fattore limitante” che la “crisi” induce – “obtorto collo” - ad accettare. Una verità, ovvero  una realtà durissima da accettare. Scriveva il grande di Treviri nel Suo celeberrimo Manifesto (1848) ove si parlava di uno “spettro” aggirantesi per la vetusta e sfiancata Europa: Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale… La società si trova improvvisamente retrocessa in una condizione di momentanea barbarie… Con quali mezzi la borghesia supera le crisi? Da un lato con la distruzione forzata di una quantità di forze produttive, dall’altro con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più radicale degli antichi mercati. Con quali mezzi dunque? Preparando crisi più violente e generali e riducendo i mezzi per prevenirle. Lo scriveva quel grande chiamando in causa quella “borghesia” alla quale affidava volentieri, in quel contesto ed in quel tempo della Storia, le leve di manovra del progresso sociale e politico dell’Europa affinché si superassero definitivamente le “strutture” e le “sovrastrutture” proprie del feudalesimo ancora esistente e resistente al tempo, e che solamente in seguito sarebbe stata soppiantata, quella “borghesia” illuminata, nella conduzione della società, da un proletariato emancipato e trionfante. Una profezia la Sua che si rinnova e che si invera – per alcuni suoi aspetti - in questa terribile stagione di assalto incontrollato dei mercati finanziarizzati, dediti alla speculazione più selvaggia e lontani assai da ogni dovere sociale che sia. Troveranno essi, i mercati, un equilibrio nuovo? E su quali basi? L’equilibrio nuovo è stato trovato nelle forme brutali che la “crisi” nella sua quotidianità ci pone sotto gli occhi. Il rischio inizialmente paventato dagli analisti più attenti e seri sarebbe stato che la qualità propria della democrazia venisse messa in discussione, venisse ad essere riveduta e corretta ad un minimo comune denominatore imposto dai mercati. Ovvero a quel “fattore limitante” che è divenuto il regolatore delle vicende sociali ed economiche al tempo della “crisi”. L’esercizio proprio delle democrazie consiste soprattutto nel garantire le opportunità di ciascuno e di tutti, consiste nel sorvegliare l’operato dei mercati stessi ponendosi essa, la democrazia, quale fattore di equilibrio e di redistribuzione della ricchezza; ebbene, quell’esercizio è stato messo in crisi, accrescendo disparità sociali, economiche e di opportunità. Ha scritto Paolo Griseri, a margine dei fatti dei cosiddetti “forconi” di queste giornate dicembrine – sul quotidiano la Repubblica del 13 di dicembre, “I ribelli senza leader” -: «Quella a cui stiamo assistendo — spiega De Rita — è la rivolta delle classi che erano riuscite a entrare nel ceto medio e ora tornano a cadere in basso». Per un trentennio, ricostruisce il presidente del Censis, «il ceto medio ha continuato ad accogliere una parte crescente della società italiana fino a rappresentarne oltre l’80 per cento. Dal 2000 in poi questo grande lago del ceto medio ha cominciato a svuotarsi». Il processo di impoverimento ha subito una forte accelerazione con la crisi del 2008. È questa accelerazione che ha portato in piazza l’esercito dei precari, degli studenti senza immediati sbocchi occupazionali e della marea di cassintegrati che da due-tre anni, vivono con 7-800 euro al mese. (…). Una signora non più giovane (…): «Quando io non ci sarò più, di che cosa vivranno i miei nipoti?». Fuori dal megafono spiega: «Mia figlia e mio genero mandano avanti la famiglia anche perché io prendo la pensione. Lui è cassintegrato, lei è disoccupata, come faranno domani?». «Queste situazioni — osserva Revelli — sono il frutto del radicalizzarsi della crisi sociale ma anche dal precipitare della crisi della politica che non si accorge nemmeno dell’esistenza di un altro mondo, molto più reale di quello dei palazzi del potere: uno scollamento drammatico ». (…). La politica riuscirà a venire a capo di un mosaico tanto contraddittorio e sfuggente? «La politica — conclude Revelli — ha fatto di tutto in questi anni per non vedere il gigantesco processo di polverizzazione sociale e di impoverimento che si stava producendo. E ancora oggi la sinistra commette l’errore di etichettare tutto questo come frutto di una violenza squadrista. Certo, il rancore e la rabbia dei poveri sono brutti da vedere e facili da strumentalizzare. Ma non possiamo cavarcela con le manifestazioni antifasciste». Ecco, sono per l’appunto costoro i “malvenuti” della “crisi”.

sabato 14 dicembre 2013

Eventi. 14 “Hamba Kahle addio compagno”.



Da una “memoria” di Dario Fo – “L'altro Mandela: tagli ai privilegi e un solo mandato” – pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 12 di dicembre 2013.

In una scena all’inizio dello stupendo film Invictus di Clint Eastwood, il partito di Mandela, riunito a congresso, decide di abolire i colori e lo stemma dalle casacche dei giocatori della nazionale di rugby, lo sport più popolare in Sudafrica, dove c'era un solo nero. Votazione per alzata di mano. Tutti gli uomini di colore levano le braccia in alto. I simboli della squadra, che oltretutto si trova in una crisi disperata, vengono annullati. Allora entra in scena Mandela, prende la parola e, con tono deciso, si dice contrario a quella risoluzione. “Dovremmo ripristinare gli Springboks. Reintegrare il loro nome, il loro emblema e i loro colori immediatamente. E vi dico perché. A Robben Island, tutti i miei carcerieri erano bianchi. Li ho studiati, ho imparato la loro lingua, ho letto i loro libri, la loro poesia. Occorreva che conoscessi il mio nemico per poter prevalere su di lui. E infatti abbiamo prevalso, non è così? Tutti quanti noi abbiamo vinto. I bianchi non sono più i nostri nemici, oggi, sono i nostri fratelli sudafricani, i nostri concittadini in democrazia. E a loro stanno a cuore gli Springboks. Se glieli portiamo via noi li perderemo, ci comporteremo come da sempre hanno fatto loro con noi. No. Noi dobbiamo essere migliori. Dobbiamo sorprenderli con la comprensione, con la moderazione e con la generosità.  È il momento di costruire questa nazione, usando ogni singolo mattone a nostra disposizione”. Ci fu una nuova votazione e, per un solo voto, la proposta di Mandela, Venne approvata. (…).

Ricevo e posto l’ode “In morte di Nelson Mandela” ricevuta dall’amico Giovanni Torres La Torre.

Nel suo viaggio di luci e ombre
la luna corre ad avvisare
gli abitanti delle terre del Natal
quelli degli altipiani stepposi del Karru
e dei Monti dei Draghi
le acque del fiume Orange
e i sepolti vivi delle miniere d’oro e uranio
di Johannesburg e di altre tane:
il messaggio di dolore al popolo del Sudafrica
è per la morte del grande padre della Nazione
Nelson Mandela.
Milioni di braccia
nella capitale
nelle baraccopoli delle città
in ogni villaggio
alzano al ritratto sorridente
fiori canti e preghiere:
mai più lutti ingiustizie e razzismo
mai più bambini senza latte senza scarpe e senza libri
e madri e figlie violentate
da criminali d’ogni risma
mai più schiavi nelle miniere
pesi di catene e pietre
carovane di uomini venduti come bestie
e sudari e celle di morte.
La nostra terra non vuole più
pozzi di acque fangose e tetti di lamiere
veleni nel sangue
né ladri e briganti a sventolare bandiere.

II
Non sono però ancora finiti i tempi della sofferenza
nel continente africano.
Incombono ancora urla di massacri
e il futuro è opaco.
I sopravvissuti dell’Apartheid e di Soweto
uccelli e musiche di fiati
intonano cori di ringraziamento
ai ritratti di Tata Mandela.

III
Hamba Kahle
addio compagno.
Torna alla terra eterna che ti fu madre
in solitudine e contemplazione.
Scorrono le acque e volano gli uccelli
nascono vivono e muoiono gli esseri umani
lasciando un grande sogno:
il diritto alla libertà
sempre da difendere e conquistare ogni giorno.
Addio Nelson Mandela.

Dalla memoria di Dario Fo.
 
Mandela, fin da prima della sua liberazione, si estranea completamente come se non avesse vissuto tutte le angherie patite e dice: “Quando la mia liberazione era prossima ho messo giù le tracce dei discorsi che avrei dovuto tenere, e man mano le parole “condanna”, “castigo” e soprattutto “vendetta” venivano cassate. A che scopo avrei deluso i miei fratelli che speravano, in memoria dei loro cari umiliati, torturati, e uccisi per anni, anzi secoli, che fosse data soddisfazione a quel popolo trattato come gli animali da allevamento? Ma il problema più importante era quello della costruzione di una comunità nazionale che non vivesse nella logica infinita della vendetta e delle ritorsioni. Il pericolo maggiore era quello di creare, in conseguenza del far giustizia ad ogni costo, una situazione di paura, anzi, di terrore nella totalità dei bianchi, i quali avrebbero preferito abbandonare il proprio paese piuttosto che subire una ritorsione”. Quel comportamento fu di esempio a tutti i popoli. (…). Egli, nell’atto stesso in cui accettava di ricoprire la carica di Presidente del Sudafrica dichiarava che sarebbe rimasto al potere per un solo mandato. E mantenne la sua parola. Anzi, alla folla di sostenitori che insistevano perché rinnovasse quell’impegno egli rispose: “No, non voglio assolutamente essere di esempio per un andazzo che normalmente si ripete in ogni società democratica: quello di gestire il potere ad libitum. Oltretutto ci sono giovani uomini politici che, sono sicuro, faranno meglio di me. Infatti, personalmente, ho mancato in più un’occasione, a cominciare dal problema della lotta all’Aids, e da un’attenzione più decisa, direi drastica, contro la criminalità organizzata che sta ancora rovinando il mio paese”.

venerdì 13 dicembre 2013

Storiedallitalia. 34 Quelli che “non se ne può più".



Torino è (…) la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». (…). La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di Equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse. Le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa espansione… Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla. È la cronaca – “L’invisibile popolo dei nuovi poveri” - che Marco Revelli ha fatto sul quotidiano “Il Manifesto” di oggi degli avvenimenti che stanno scuotendo il bel paese dalle Alpi al Lilibeo. È che il movimento, che non è ancora tellurico (e non lo sarà mai, non ne abbiamo la stoffa), mi ha colto mentre per motivi personali mi preparavo ad affrontare una condizione che oggi mi viene da definire di chiaro-scuro. E dalla quale condizione mi accingo ad uscire, virando verso dove? È che, avvolta com’era la mia persona in una condizione inusitata, le voci che mi giungevano mi spingevano a pensare al movimento che si stava per avviare come a qualcosa di già visto negli anni trascorsi, con l’affannarsi dei cosiddetti “padroncini” per spuntare alla politica quei “bonus” che avrebbero consentito loro di continuare a sopravvivere nelle loro attività imprenditoriali. Mi sbagliavo e di grosso. Lasciata la condizione mia di chiaro-scuro ho trovato l’interessante pezzo di Marco Revelli che mi ha ampliato ed illuminato gli orizzonti sugli ultimi avvenimenti. Continua Marco Revelli: E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa dai propri problemi, a guardarli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me…». Loro alzavano il pollice – non l’indice, il pollice – come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?». Altra comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa era esilissimo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». E qui ho provato a riflettere. Ed a pensare a tutti questi anni che avremmo dovuto spendere in maniera più virtuosa. E così pensando a giungere ad una amarissima conclusione: questa volta la coperta è veramente troppo corta. E se prima essa riusciva, tirata per i suoi lembi, a coprire abbastanza, oggigiorno risulta sempre più misera ed inadeguata a soccorrere i tanti. Non che dell’insufficienza di quella coperta non ci siano stati i segnali. Eccome. Ma si era tutti come presi da quella cieca ed imprevidente necessità di “mungere” dalle generose mammelle dello Stato sociale quanto più possibile - ora e subito – senza pensare al rischio di mandare tutto in rovina. E come d’incanto montare oggi questi scenari d’apocalisse che, ne sono convinto, svaporeranno appena le “santa natività” richiamerà i più nel dolce, tenero tepore delle proprie case. Cosa ne rimarrà del «non ce la facciamo più» di queste giornate dicembrine? Ben poca cosa. L’indifferenza dei tanti per la mala politica, il voltare altrove lo sguardo di fronte alle rivelate malversazioni compiute dalla mala politica sulla cosa pubblica hanno condotto alle attuali pirotecniche condizioni che non avranno la forza di determinare esplosione alcuna. Solamente fuochi d’artificio. Aspettiamo tutti il natale! E del «non ce la facciamo più» ha provato a scriverne anche Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” del 12 di dicembre: “È vero – (…) – questo dimostra a che punto siamo arrivati. Non se ne può più; c’è un clima, una pressione che non sono più tollerabili”. Qualcosa nel tono, nell’enfasi, mi ha fatto sospettare che i miei amici e io non stavamo raggiungendo le stesse conclusioni. Il seguito del discorso mi ha levato ogni dubbio. “Ti rendi conto che nessuno si compra una macchina nuova? E che, se proprio la vecchia cade a pezzi, altro che Porsche o Mercedes, al massimo un’utilitaria da 10.000 euro. Appena sali un po’, subito l’accertamento”. “Bè sì; ma ti difenderai, contabilità, bilanci, lo sai come si fa”. (…). “Ma insomma, non se ne può più. Io ho aperto un locale. Avevo ereditato un po’ di soldi e li ho investiti. Mi hanno fatto l’accertamento e ho dovuto dargli il testamento, l’accettazione dell’eredità, le mie dichiarazioni dei redditi degli anni precedenti e un sacco di altri documenti”. Commenti disgustati di tutti gli altri. “C’è un clima insopportabile, così non si può andare avanti”. “Ma scusa – gli ho chiesto – come è finita?” “Bè, non è successo niente, hanno archiviato”. “Vuoi dire che ti hanno dato ragione?” “Sì. Ma sai quanto ho dovuto penare per raccogliere tutti i documenti. E poi la perdita di tempo, l’ansia, la violazione della privacy”. Ho cominciato a spiegare. C’è un’evasione fiscale da 130 miliardi l’anno (probabilmente di più). Recuperassimo questi soldi, potremmo diminuire il carico fiscale sulle imprese, aumentare le pensioni, finanziare la spesa pubblica, insomma incrementare i consumi e favorire la ripresa. Quindi la lotta all’evasione è necessaria. E dove si può fare? Certo non su lavoratori dipendenti e pensionati: quelli non possono evadere. Resta la gente come te. Sono venuti a controllare, hanno trovato tutto in regola e se ne sono andati. Tu sei la prova che il sistema funziona. Di che ti lamenti? Ti fossi comprato la Porsche (da lì eravamo partiti) sarebbe stato lo stesso. Non c’è stato niente da fare. Come quell’esercito con cui simpatizzavano (“i forconi” n.d.r.), erano incapaci di ragionare. Non ho ottenuto risposte coerenti nemmeno quando gli ho detto: “Ma vi rendete conto che non vi state lamentando di un accertamento sbagliato ma di una verifica? Che, in realtà, semplicemente non volete essere controllati?”. (…). È che i “forconi” sono nati nella splendida terra della “Trinacria”. Splendida terra spolpata dalla mala politica, dalla malavita e dal malaffare, e dalla dissipazione – spesso penalmente perseguibile - delle risorse pubbliche. Spolpata perché? E come, se non nell’indifferenza generale? Ora quel modello di “riviviscenza” sociale lo si vuole esportare altrove. Per farne cosa? Ché, per il dizionario Sabatini Coletti, “riviviscenza” è per “alcuni organismi, ripresa delle funzioni vitali temporaneamente sospese; med. ritorno in vita dopo una fase di morte apparente”. La morte sociale, la morte di una cittadinanza responsabile ed attiva. Scrive più avanti Marco Revelli: Ecco, se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica. Non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. Società che è senza un progetto che sia, se non un immediato tornaconto che non tenga conto della generalità dei problemi e dei bisogni. Presto che arriva il natale!

sabato 7 dicembre 2013

Cronachebarbare. 29 “Il Paese dei ricchi, quello dei poveri”.



Afferma l’ineffabile Letta che “i conti” dell’Italia sono a posto. E con ineffabile sicumera si perita di bacchettare l’Europa intera. A posto come? In che senso? Per merito di chi? E con quali sacrifici imposti? Su tutto ciò l’ineffabile non porge parola. Ne ha scritto Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” del 3 di dicembre ultimo col titolo “Larghi brodini”: L’altro giorno il Corriere anticipava il rapporto 2013 sulle attività della Guardia di finanza: oltre 5 mila tra funzionari e impiegati pubblici denunciati per corruzione e truffa (dai falsi poveri ai finti consulenti), che nei primi 10 mesi dell’anno han provocato danni erariali da 2 miliardi e 22 milioni di euro, più truffe per 1 miliardo e 358 milioni. Cioè hanno rubato quasi 3,5 miliardi alla collettività: 350 milioni al mese. E questi sono soltanto quelli scoperti: immaginiamo a quanto ammonta il totale. Qualche mese fa, il ministero dell’Economia comunicò che i mancati incassi di evasione fiscale accertata dal 2000 al 2012, ma mai recuperata da Equitalia, ammonta a 545,5 miliardi di euro, su un totale di “ruoli” da riscuotere già emessi per 807,7 miliardi. Una parte dell’enorme buco (107,2 miliardi) è irrecuperabile perché riguarda soggetti in fallimento. Ma questo non basta per giustificare la bassissima capacità di riscossione di Equitalia, che non arriva al 5 per cento. Viene da chiedersi: quale è il costo sociale di tutto quest’arraffare a tutti i livelli? È qui che l’ineffabile dovrebbe, com’è di moda dire, “metterci la faccia”. Ma come un rodomonte qualsiasi trova più giusto asserire il non asseribile in barba a quegli stessi numeri che all’ineffabile saranno ben noti. È questo il livello della politica nel bel paese. Una politica da bar. Scrive ancora e giustamente Marco Travaglio: In un paese serio (ipotetica del terzo tipo: un paese serio non avrebbe queste cifre di mancati introiti) si parlerebbe di questo, e solo di questo. E un governo e un Parlamento e dei partiti seri eviterebbero di perdere tempo appresso a corbellerie come la riforma costituzionale o l’ennesima legge contro la custodia cautelare e contro i giudici; ma concentrerebbero tutto il tempo e tutti gli sforzi disponibili a trovare il sistema per mettere le mani in questo immenso serbatoio di nero. Che non è numerologia astratta: sono somme accertate, con i nomi e i cognomi dei corrotti, dei truffatori e degli evasori. Basterebbe recuperarne il 5 o il 10 per cento in più, aumentando l’efficienza della macchina dello Stato, per avere a disposizione decine di miliardi per la mitica “ripresa”. Invece si continua a cincischiare dietro i falsi problemi e le false soluzioni. E a bollare chi chiede una seria lotta alla corruzione, all’evasione e al riciclaggio come giustizialista manettaro. Poi uno guarda chi sono i ministri e i politici che dovrebbero occuparsene, e capisce tutto. Viene da chiedersi, nonostante l’ineffabile: ma chi è a tenere i “conti” in ordine? I soliti “fessi”. I tartassati di sempre. Ha scritto a questo proposito sul quotidiano l'Unità del 27 di novembre l’economista Nicola Cacace – “Il Paese dei ricchi, quello dei poveri” -: L’Italia oggi soffre da morire per la crisi perché è divisa in due, quella dei poveri e quella dei ricchi ed i governi lo ignorano. (…). Con poco meno di 9mila miliardi di euro, quasi il 6% del Pil, la ricchezza privata italiana batte un record relativo mondiale. Anche questi dati mostrano un’Italia profondamente divisa, un blocco fortunato formato dal 10% delle famiglie che possiede il 46% di tutta la ricchezza, quasi 2 milioni di euro a famiglia, un blocco mediano, che la crisi sta erodendo, formato dal 40% delle famiglie, che possiede il 10% della ricchezza, 500mila euro a famiglia ed il blocco dei poveri, vecchie e nuovi, formato dall’ultimo 50% delle famiglie, di poveri vecchi e nuovi che possiedono come patrimonio netto meno del 10% (9,8%, dati Bankitalia), 60mila euro a famiglia, di cui 30mila in immobili (molto meno di una casa in proprietà per famiglia) e 30mila in risparmi liquidi. In queste famiglie, se sparisce il reddito, si vive poco più un anno con i risparmi della vita, poi, chi ce l’ha, vende la casa, poi è la fine. L’aumento della povertà dopo anni di crisi ha messo a terra almeno mezza Italia ed i governanti non possono continuare a non tenerne conto. Perché, di fronte ad un Paese diviso in due, l’Italia dei ricchi e quella dei poveri, di fronte ad un debito pubblico crescente che ha superato i 2mila miliardi ed il 30% del Pil, di fronte alla realtà di una norma, il Fiscal Compact che ci imporrà presto di ridurre il debito in modi convincenti - di almeno una ventina di miliardi l’anno come da Bruxelles il commissario Olli Rehn ci ricorda in ogni occasione -, di fronte ad una ricchezza privata non trascurabile, perché nessun governo azzarda qualche proposta in tal senso? (…). Perché, per iniziare a salvare il Paese, non si può chiedere un contributo a quel 10% di famiglie che posseggono 4mila miliardi di patrimonio netto? Monti aveva obiettato che non ci sono dati certi ma non è più vero, c’è il catasto per gli immobili e c’è la banca dati in mano alla Finanza per i beni mobili. Un contributo straordinario dello 0,5% del patrimonio del 10% delle famiglie più ricche, da 2 milioni in su, darebbe 20 miliardi di entrate e costerebbe una media di 8mila euro a ciascuna delle 2,4 milioni di famiglie più brave e fortunate d’Italia. Nessuno fallirebbe, la speranza di uscire dal buco nero della crisi sarebbe più concreta, i valori di solidarietà del popolo italiano sarebbero esaltati, alla luce dell’esempio di civismo che le classi dirigenti darebbero. Possibile che le cose che ha scritto Nicola Cacace siano anch’esse ignote all’ineffabile? È che l’ineffabile, di suo, non ci mette nemmeno la faccia. Ma quelli per i quali i conti non tornano sono sempre gli stessi che mal dovrebbero sopportare le querule comunicazioni dell’ineffabile di turno.

martedì 3 dicembre 2013

Cronachebarbare. 28 “Olimpique Marsiglia-Milan”.



(…). 1991, quarti di finale di Coppa dei Campioni Olimpique Marsiglia-Milan. Il Milan aveva vinto la Coppa nei due anni precedenti, avrebbe potuto accettare con una certa serenità la sconfitta che si stava profilando (gol di Waddle). Non si può vincere sempre. A cinque minuti dalla fine si spegne uno dei quattro riflettori dello stadio. Il nobile Maldini, il nobile Baresi e altri giocatori circondano l'arbitro: con ampi gesti indicano il riflettore spento, c’è troppo buio, non si può giocare, la partita va ripetuta (si vedevano perfino le monetine che i tifosi del Marsiglia stavano gettando sul campo per irridere a quella vergognosa sceneggiata). L’arbitro, ovviamente, non gli dà retta. Allora Galliani, in collegamento con Berlusconi, ordina il ritiro della squadra. Una cosa inaudita, grottesca, che non si è mai vista nemmeno nei più scalcinati campetti dei campionati minori Figc. Il Milan si beccherà una squalifica di un anno. Chi ricorda questo fatto di disonorevole cronaca sportiva? Certamente pochi, pochissimi, anzi nessuno. Se ne è fatto carico Massimo Fini su “il Fatto Quotidiano” del 17 di settembre 2013 col titolo “Milan, la sconfitta è solo per gli altri”. Ma è un fatto di disonorevole cronaca sportiva che va aldilà di quell’effimero mondo pallonaro per divenire fatto sociologico ed antropologico che rende contezza di tutto quanto avviene nel bel paese. E che rischiara, fino a gettarne nuova luce, le cronache di questi giorni che sono susseguenti alla “decadenza” del signor B. Poiché le incredibili cronache che hanno accompagnato quell’atto – della “decadenza”, è ovvio -, intervenuto a sanare nelle istituzioni un episodio d’indegnità acclarata, se lette secondo la narrazione di Massimo Fini, rendono appieno la calamità che da lustri e lustri ammorba il vivere civile e politico del bel paese. Si disvela quell’immensa bolla che ha avviluppato il paese e dalla quale è stato ed è impossibile uscire senza una “redde rationem” – una “resa dei conti” - fatta “senza se e senza ma”. “Redde rationem” che non è stata fatta, che non si vuol fare, che non si farà mai e poi mai. Col risultato che la bolla continuerà ad inghiottire la nostra vita sotto tutti gli aspetti. Scriveva oltre Massimo Fini:   Questa incapacità di accettare la sconfitta, di cercare di evitarla anche ricorrendo ai mezzi più sleali, è un riflesso del mondo morale di Berlusconi, di cui abbiamo poi avuto ampia testimonianza nella sua attività politica (“Bastava il Milan per capirlo” scrissi per l’Europeo nel gennaio 1995). Il calcio, si sa, è una metafora della vita. Nel mondo morale di Berlusconi c'è anche che col denaro si può comprare tutto: Guardie di finanza, testimoni, giudici. E anche di questo la storia del “suo” Milan è stata testimonianza. Quando aveva già i tre olandesi e sapeva di non poterlo far giocare, acquistò Savicevic, allora uno dei migliori giocatori del mondo, solo per toglierlo alle altre squadre. Con lo stesso scopo acquistava giocatori importanti senza farli giocare. Il nazionale De Napoli, in due anni, vide il campo, in tutto, per sette minuti. Ma il caso più emblematico è quello di Gigi Lentini. Nel 1992 Lentini, talentuoso ragazzo del vivaio granata, aveva portato il Torino al terzo posto in campionato. Ma Berlusconi lo voleva a tutti i costi. Gli fece offerte sempre crescenti che Lentini rifiutò: nel Torino era entrato a otto anni, dal Torino aveva avuto la fama, alla gloriosa e sfortunata società granata era legato da fortissimi vincoli affettivi, il denaro non era tutto. Ma Berlusconi portò l’offerta, fra ingaggio e acquisto del cartellino, alla sbalorditiva cifra di 64 miliardi e il ragazzo, figlio di una famiglia di operai delle Banchigliette, cedette. C’è chi dice che i miliardi siano stati “solo” 30, ma ha poca importanza. Berlusconi non aveva comprato le gambe di Lentini, che non potevano valere né 60 né 30 miliardi, gli aveva comprato l'anima dimostrandogli (a lui e al vasto mondo giovanile che ruota intorno al calcio) che i suoi ingenui sentimenti di ragazzo non valevano nulla di fronte al potere del denaro. Naturalmente la cosa andò a finir male. Lentini, frastornato nel nuovo ambiente, ebbe uno stupido incidente automobilistico, calcisticamente si rovinò, non servì al Milan né il Milan a lui. (…). Ha qui termine la disonorevole cronaca sportiva di Massimo Fini. Che è divenuta disonorevole cronaca anche nei campi ben più importanti del vivere civile, del vivere politico, del vivere economico del bel paese al tempo del signor B. Ora il signor B. è stato costretto ad abbandonare gli alti scranni senatoriali per “indegnità”. Ma come per un perverso intrigo questo aspetto della vicenda della “decadenza” è sparito dalle cronache giornalistiche. Almeno nelle furbate di una certa “cronaca stampata” così come di una certa “cronaca parlata”. Il nulla. È questo disastrato paese che non ha voglia di nessuna “resa dei conti”. Poiché in esso si vive all’ombra di quel “familismo amorale” e di quel “tengo famiglia” che non ha mai e poi mai consentito di scavare a fondo per ricercare le ragioni dei fatti e degli avvenimenti che ne hanno avvilito e lordato la storia. Ha scritto Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica del 20 di novembre 2013 – “La nuova destra dei camaleonti” – facendo riferimento alla nascita del cosiddetto “Ncd”: Quel che manca è la caduta di Robespierre. Riottosi, i vassalli di Berlusconi rimangono vassalli. Annunciano il nuovo, ma non escludono patti con l’ex capo e promettono di lottare contro la sua decadenza dal Senato. Le idee che avevano sulla Costituzione, troppo parlamentare e giustizialista, son sempre lì. Piuttosto viene in mente l’8 settembre ‘43: Badoglio proclamò un armistizio che apriva agli anglo-americani senza chiudere a Hitler, poi col re fuggì da Roma lasciando che i nazisti occupassero il paese. (…). Nessun inventario, nessun rendiconto del berlusconismo, nessun taglio del cordone ombelicale (ma neanche idee su economia, Europa, politica estera). Se si esclude la difesa del governo di Larghe Intese, l’essenza berlusconiana è preservata. La lotta alla magistratura indipendente prosegue, la decadenza del leader è rifiutata. Che destra normale può nascere in queste condizioni, sempre che norma significhi norma? Si fa presto a dirsi moderati, se la sovversione da cui ci si separa resta ingiudicata. Qui è il pericolo che corre l’Italia: che cambino nomi e padroni dei partiti, ma non la cultura dell’illegalità che ci ha ammorbati ben prima che Berlusconi andasse al potere: (…). Tutto è permesso agli oligarchi. Anche le telefonate fatte dalla Cancellieri a amici privati, i Ligresti: telefonate in cui si «mette a disposizione», e 4 volte dichiara «non giusto» (lei che è Guardasigilli) l’arresto appena avvenuto di Salvatore Ligresti e delle figlie per reato di falso in bilancio e manipolazione di mercato (il figlio Paolo, latitante, evita l’incarcerazione). (…). Tragicamente degenera la democrazia quando la legalità è facoltativa. Di fronte a noi sfilano governisti (spesso indagati, spesso ex P2) che abrogano il passato per non mettersi in pericolo. Le tragedie si superano con la catarsi: una purificazione. E con un giudizio, espresso dall’opinione pubblica che è il Coro. In Italia non sono in vista catarsi, o giudizi: né a destra, né per ora a sinistra. (…). Come può essere messo alla porta quel Galliani che abbiamo ritrovato nella cronaca – dimenticata – di Massimo Fini? “Tenimmo tutti famiglia”. Ma quella “memoria” ripescata nei polverosi archivi spazza via tutte le insensatezze e tutte le ipocrisie che hanno preceduto e seguito la decadenza di colui il quale si è macchiato d’”indegnità” per continuare a stare nelle istituzioni massime. È questo il paese dei “gattopardi” e dei “camaleonti”. Con buona pace di quelle splendide, innocenti creature.