Avviene sempre, allorquando si
intraprenda una lettura nuova, che ricordi e sensazioni tornino ad affollare la
mente e lo spirito del lettore. E così è accaduto sin dal primo approccio con
la nuova fatica letteraria del professor Giuseppe Sicari – “Le isole vagabonde”, Pungitopo Editore (2013), pagg. 133, € 12 -.
Poiché la fortuna di un libro, la sua stessa sopravvivenza e la ragione del suo
esistere sono legate a sottili, quasi invisibili fili che, come iridescenti
ragnatele, ne incapsulano l’apparire - preceduto spesso da attesa ansiosa – ed
il suo successivo percorso. Così è stato per “Le isole vagabonde” come per le precedenti pubblicazioni di
Giuseppe Sicari. E tra i ricordi e le sensazioni suscitati sin dai primi
approcci mi è tornato alla mente quanto il grande Umberto Eco fa dire al Suo
Guglielmo da Baskerville in quell’opera somma che è “Il nome della rosa”: Il bene di un libro sta nell'essere letto.
Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta
parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non
producono concetti, e quindi è muto. Ed è bene che “Le isole vagabonde” venga letto. Ed i “segni” che il libro di
Sicari contiene sono tanti, tantissimi, ché appare quasi difficile
districarsene alla prima lettura. Poi tutto si appiana. E le prime sensazioni
che la scrittura di Sicari suscita portano a pensare alle vicende dell’ebreo
Prospero Mussumeci, ventiseienne ebreo e medico, come grande metafora delle
cose della vita degli umani. Come se dietro i “segni” storici ed
inequivocabili che l’opera di Sicari contiene e propone si volesse alludere ad
un qualcosa di più grande, di più universale, di trascendentale quasi, come un
qualcosa che l’Autore per celia volesse tenere in serbo per sé e non disvelare,
affidando alla fortuna futura del libro l’eventualità che quei “segni”
superiori venissero alfine rivelati. E preso così, sin dal primo
approccio con l’opera nuova, dalla ricerca di quei “segni” nascosti, per
comprenderne a pieno il messaggio che sta tra trama ed ordito, mi è venuto da
pensare al londinese John Donne (1572 – 1631) – che è stato un poeta e
religioso inglese - che nel Suo sermone “Nessun
uomo è un'isola” ebbe a dire: Nessun uomo è un'Isola, intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata
via dall'onda del Mare, la Terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse
stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. L’arcano
dei “segni”
nascosti è rivelato alla pagina 30 dell’opera di Sicari. E l’opera di disvelare
l’illustre Autore l’affida a Rosario
Paternò – detto “Sarino” -, il suo “bordonaro” che, etimologicamente
parlando, è il “buddunaru” che deriva dalla lingua primigenia della città
dello Stretto, da quel quartiere della città di Messina situato nella vallata
del torrente Bordonaro, per l’appunto, oggigiorno invisibile agli occhi dei
visitatori poiché convenientemente ricoperto da un manto stradale. E "burdunaru"
è sinonimo di "mulattiere", di "conduttore di animali da soma",
di colui insomma che, ben ripagato, conduce e cura, mantiene e custodisce i cosiddetti
“bardotti", ovvero gli ibridi concepiti dall'incrocio di un'asina con un
cavallo che, all’epoca dei fatti narrati da Sicari, solevano essere le
cavalcature utilizzate per lunghi viaggi. E Sicari a “Sarino” il “bordonaro”,
all’indirizzo del medico ebreo Mussumeci, che conduce per monti e valli, fa
dire: Nun si facissi ‘ncantari, dotturi! Chiddi su’ isuli fatati, oj ccà,
dumani ddà, camminanu e camminanu e nun si fermanu mai. Sunnu isuli vagabunni. E
l’angoscia dei “segni” da rinvenire s’allenta alle parole del mulattiere. Isole
come isole, “isole vagabonde” e non già metafore esistenziali. E la
fantasia corre sfrenata nel corso della lettura. E la magia della lettura rende
immagini, suoni, profumi e quant’altro la meravigliosa terra di Sicilia serba
nella sua storia, nei suoi ruderi oramai cadenti, nelle parole dei suoi abitanti che, nell’opera di Sicari,
diventano come un canto corale, e che sembrano esplodere quasi – almeno per chi
non abbia a frequentarne i luoghi con assiduità – come rivelazioni nuove di uno
spirito greve e leggero al contempo. E come un susseguirsi di colori ed
immagini irreali in un caleidoscopio così nell’opera nuova le “voci
siciliane” s’inseguono e si perdono negli spazi che l’agile fantasia
dell’Autore magistralmente rende anche all’inconsapevole lettore. Ed ecco
apparire la “burnia”, ascoltare i “bazzarioti” incontrati per le
strade del tempo, scambiarsi “salamilicchi e cicirimoddi”, “allicchettarsi”
secondo le convenienze, maledire gli inconvenienti del lungo viaggio nella più
tipica delle espressioni del luogo “ahi, ahi chi malanova mi vinni!”.
Per non dire poi delle parole proprie di quella civiltà contadina che,
nell’anno 1470, anno della storia narrata, facevano da collante nella vita
quotidiana. Ed ecco restituiti a nuova vita dall’Autore “’u bummulu”, ed “’u
tabuto”, e la “putìa”, ed i “guaddarusi”, e li “vastasi”, e la “simenza” ché, per quella
straordinaria civiltà legata alla terra, non stanno per i comuni semi ma per le
minutissime uova dei bachi da seta. Una ricerca storico-lessicale che fa
dell’opera nuova di Giuseppe Sicari una straordinaria antologia da leggere con
inusitato trasporto. E che dire ancora, ché sembra di risentirne il magico
suono, dei “ciancianedde”; e dei “babbasuni” che nella storia d’ogni
tempo hanno rappresentato l’anima buona e più sprovveduta di una larga fetta
del genere umano? Ché sembra ancora di sentire “banniare” per valli e
contrade quelli che al tempo della storia avevano compito di pubblicizzare e
reclamizzare. E l’occhio attento ed esperto dell’Autore, al pari del più abile
degli investigatori, scandaglia vita, costumi e costumanze di un mondo che la
magia della scrittura ci rende a piene mani. Bozzetti di vita ché pare di
risentire, risa e canti, nenie e ballate che ancor oggi, per la magia del
leggere, sembrano percorrere contrade e borghi dei luoghi toccati dal viaggiare
dell’ebreo Mussumeci, medico. Bozzetti di vita che l’abile Autore cesella con
l’arte matura d’un orafo. Bozzetti di credenze o di credulità di civiltà
contadina laddove l’ebreo medico incontra la “dutturissa”, al secolo “donna
Rosa ‘a Jalatisa”, alle prese con parassiti intestinali di una bambina
del tempo: “Luti cannaruti, senza manu e senza pedi, lassati li budeddi di ‘sta
criatura e tutti abbasciu vinni jiti e nun turnati”. È la rivisitazione
di un’antropologia contadina che rende, alla novella opera di Sicari, un
carattere “documentaristico-narrativo” d’inestimabile valore. È un esplodere di
figure e di situazioni imprevedibili e nuove che rendono al meglio la vitalità,
se non la carnalità, dei luoghi e delle figure umane che ne riempiono gli
spazi. Figure che sopravvivono al tempo e che sembrano ancor oggi abitare i
luoghi della storia che ci è magistralmente raccontata. “Peppi Marmanicu”, “Cicciu
Menzapicicia”, “Turi Cartafausa” e “Micu
Sucafrittuli”, per i quali personaggi il Nostro, amorevolmente, si
spinge a rivelarne le caratteristiche fisiche e d’umanità, laddove scrive che “Marmanicu
vuol dire strambo, svitato, pazzerellone, Menzapicicia allude al suo pene di
piccole dimensioni, Cartafausa è detto così perché è un piccolo imbroglione,
mentre l’epiteto di Micu allude alla predilezione per i ciccioli fritti di
maiale”. Straordinarie figure che il medico viaggiatore Prospero
Mussumeci incontra nella taverna di “’gnura Cuncetta”, l’ostessa, “un
fimminuni barbuto, muscoloso e alto otto palmi abbondanti”, nel piccolo
borgo del Capo d’Orlando, ove giunge dopo aver “firriato la Lecca e la Merca”,
ovvero i paesotti di Naso e di Ficarra, luogo il Capo d’Orlando ove gli vengono
elogiati i sopraffini piatti della taverna: Corpu di l’ariu! Mi vi pigghia un
sintomu maligno e ‘na malanova! Haiu lu piscistoccu supra lu focu e puru lu
sucu pri li maccarruni! N’auta vota! Dutturi, vi piaci lu piscistoccu alla
gghiotta? E li maccarruni di casa? Lu sentiti lu ciaru? Ché sembra
proprio di sentirne l’olezzo che sa d’unto quanto basta per renderlo
indimenticabile. Ché l’opera nuova di Giuseppe Sicari è anche rivisitazione di
percorsi, di memorie e di ricordi laddove registra, forte della memoria del
dottor Mussumeci, che “il castello e il territorio del Capo
d’Orlando fanno parte della baronia di Naso che ho visitato il mese passato. Il
profilo dell’estremità rilevata del promontorio ricorda, soprattutto per chi
arriva dal mare, la ben più maestosa rocca di Cefalù. Per questo gli invasori
arabi avevano chiamato questo luogo
Gafludi as Sugrà, la piccola Cefalù. L’attuale denominazione, invece, è
legata alla leggendaria figura di un paladino del re di Francia, Rolando, detto
anche Orlando”. E poi San Marco e San Filadelfio. Un viaggiare che è un’avventura
di storia, di luoghi, di odori e di sapori, di luci e colori. Ed i personaggi a
turno s’affacciano su di un palcoscenico che è maestoso e che è la terra di
Sicilia. È che in quel girovagare, verso un luogo che fosse soprattutto di pace,
l’ultima stazione segnata è quella di Alicata. Un luogo ove i “segni”
– seppur nascosti o non visti - della storia narrata si ricompongono tutti e
consentono all’Autore di sostenere, a proposito del girovagare del Prospero
Mussumeci, medico ed ebreo, che “forse, (…), ha finalmente trovato un
passaggio per le ‘sue’ isole e vi si è diretto senza perdere altro tempo. Non
lo biasimo, dunque, anzi! Sì, perché l’importante è questo: arrivare prima o
poi all’isola che abbiamo cercato per tutta la vita, si chiami Dindima o
Pasqua,Tahiti o Sant’Elena. Spesso, poi, non si trova agli antipodi, ma a poche
bracciate dal luogo dove stiamo e da dove l’abbiamo sempre agognata”. I
“segni”,
nella storia, ci stavano tutti.
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