"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 19 novembre 2013

Eventi. 13 Leggere “Le isole vagabonde”.



Avviene sempre, allorquando si intraprenda una lettura nuova, che ricordi e sensazioni tornino ad affollare la mente e lo spirito del lettore. E così è accaduto sin dal primo approccio con la nuova fatica letteraria del professor Giuseppe Sicari – “Le isole vagabonde”, Pungitopo Editore (2013), pagg. 133, € 12 -. Poiché la fortuna di un libro, la sua stessa sopravvivenza e la ragione del suo esistere sono legate a sottili, quasi invisibili fili che, come iridescenti ragnatele, ne incapsulano l’apparire - preceduto spesso da attesa ansiosa – ed il suo successivo percorso. Così è stato per “Le isole vagabonde” come per le precedenti pubblicazioni di Giuseppe Sicari. E tra i ricordi e le sensazioni suscitati sin dai primi approcci mi è tornato alla mente quanto il grande Umberto Eco fa dire al Suo Guglielmo da Baskerville in quell’opera somma che è “Il nome della rosa”: Il bene di un libro sta nell'essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto. Ed è bene che “Le isole vagabonde” venga letto. Ed i “segni” che il libro di Sicari contiene sono tanti, tantissimi, ché appare quasi difficile districarsene alla prima lettura. Poi tutto si appiana. E le prime sensazioni che la scrittura di Sicari suscita portano a pensare alle vicende dell’ebreo Prospero Mussumeci, ventiseienne ebreo e medico, come grande metafora delle cose della vita degli umani. Come se dietro i “segni” storici ed inequivocabili che l’opera di Sicari contiene e propone si volesse alludere ad un qualcosa di più grande, di più universale, di trascendentale quasi, come un qualcosa che l’Autore per celia volesse tenere in serbo per sé e non disvelare, affidando alla fortuna futura del libro l’eventualità che quei “segni” superiori venissero alfine rivelati. E preso così, sin dal primo approccio con l’opera nuova, dalla ricerca di quei “segni” nascosti, per comprenderne a pieno il messaggio che sta tra trama ed ordito, mi è venuto da pensare al londinese John Donne (1572 – 1631) – che è stato un poeta e religioso inglese - che nel Suo sermone “Nessun uomo è un'isola” ebbe a dire: Nessun uomo è un'Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare, la Terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. L’arcano dei “segni” nascosti è rivelato alla pagina 30 dell’opera di Sicari. E l’opera di disvelare l’illustre Autore  l’affida a Rosario Paternò – detto “Sarino” -, il suo “bordonaro” che, etimologicamente parlando, è il “buddunaru” che deriva dalla lingua primigenia della città dello Stretto, da quel quartiere della città di Messina situato nella vallata del torrente Bordonaro, per l’appunto, oggigiorno invisibile agli occhi dei visitatori poiché convenientemente ricoperto da un manto stradale. E "burdunaru" è sinonimo di "mulattiere", di "conduttore di animali da soma", di colui insomma che, ben ripagato, conduce e cura, mantiene e custodisce i cosiddetti “bardotti", ovvero gli ibridi concepiti dall'incrocio di un'asina con un cavallo che, all’epoca dei fatti narrati da Sicari, solevano essere le cavalcature utilizzate per lunghi viaggi. E Sicari a “Sarino” il “bordonaro”, all’indirizzo del medico ebreo Mussumeci, che conduce per monti e valli, fa dire: Nun si facissi ‘ncantari, dotturi! Chiddi su’ isuli fatati, oj ccà, dumani ddà, camminanu e camminanu e nun si fermanu mai. Sunnu isuli vagabunni. E l’angoscia dei “segni” da rinvenire s’allenta alle parole del mulattiere. Isole come isole, “isole vagabonde” e non già metafore esistenziali. E la fantasia corre sfrenata nel corso della lettura. E la magia della lettura rende immagini, suoni, profumi e quant’altro la meravigliosa terra di Sicilia serba nella sua storia, nei suoi ruderi oramai cadenti, nelle parole  dei suoi abitanti che, nell’opera di Sicari, diventano come un canto corale, e che sembrano esplodere quasi – almeno per chi non abbia a frequentarne i luoghi con assiduità – come rivelazioni nuove di uno spirito greve e leggero al contempo. E come un susseguirsi di colori ed immagini irreali in un caleidoscopio così nell’opera nuova le “voci siciliane” s’inseguono e si perdono negli spazi che l’agile fantasia dell’Autore magistralmente rende anche all’inconsapevole lettore. Ed ecco apparire la “burnia”, ascoltare i “bazzarioti” incontrati per le strade del tempo, scambiarsi “salamilicchi e cicirimoddi”, “allicchettarsi” secondo le convenienze, maledire gli inconvenienti del lungo viaggio nella più tipica delle espressioni del luogo “ahi, ahi chi malanova mi vinni!”. Per non dire poi delle parole proprie di quella civiltà contadina che, nell’anno 1470, anno della storia narrata, facevano da collante nella vita quotidiana. Ed ecco restituiti a nuova vita dall’Autore “’u bummulu”, ed “’u tabuto”, e la “putìa”, ed i “guaddarusi”,  e li “vastasi”, e la “simenza” ché, per quella straordinaria civiltà legata alla terra, non stanno per i comuni semi ma per le minutissime uova dei bachi da seta. Una ricerca storico-lessicale che fa dell’opera nuova di Giuseppe Sicari una straordinaria antologia da leggere con inusitato trasporto. E che dire ancora, ché sembra di risentirne il magico suono, dei “ciancianedde”; e dei “babbasuni” che nella storia d’ogni tempo hanno rappresentato l’anima buona e più sprovveduta di una larga fetta del genere umano? Ché sembra ancora di sentire “banniare” per valli e contrade quelli che al tempo della storia avevano compito di pubblicizzare e reclamizzare. E l’occhio attento ed esperto dell’Autore, al pari del più abile degli investigatori, scandaglia vita, costumi e costumanze di un mondo che la magia della scrittura ci rende a piene mani. Bozzetti di vita ché pare di risentire, risa e canti, nenie e ballate che ancor oggi, per la magia del leggere, sembrano percorrere contrade e borghi dei luoghi toccati dal viaggiare dell’ebreo Mussumeci, medico. Bozzetti di vita che l’abile Autore cesella con l’arte matura d’un orafo. Bozzetti di credenze o di credulità di civiltà contadina laddove l’ebreo medico incontra la “dutturissa”, al secolo “donna Rosa ‘a Jalatisa”, alle prese con parassiti intestinali di una bambina del tempo: “Luti cannaruti, senza manu e senza pedi, lassati li budeddi di ‘sta criatura e tutti abbasciu vinni jiti e nun turnati”. È la rivisitazione di un’antropologia contadina che rende, alla novella opera di Sicari, un carattere “documentaristico-narrativo” d’inestimabile valore. È un esplodere di figure e di situazioni imprevedibili e nuove che rendono al meglio la vitalità, se non la carnalità, dei luoghi e delle figure umane che ne riempiono gli spazi. Figure che sopravvivono al tempo e che sembrano ancor oggi abitare i luoghi della storia che ci è magistralmente raccontata. “Peppi Marmanicu”, “Cicciu Menzapicicia”, “Turi Cartafausa” e “Micu Sucafrittuli”, per i quali personaggi il Nostro, amorevolmente, si spinge a rivelarne le caratteristiche fisiche e d’umanità, laddove scrive che “Marmanicu vuol dire strambo, svitato, pazzerellone, Menzapicicia allude al suo pene di piccole dimensioni, Cartafausa è detto così perché è un piccolo imbroglione, mentre l’epiteto di Micu allude alla predilezione per i ciccioli fritti di maiale”. Straordinarie figure che il medico viaggiatore Prospero Mussumeci incontra nella taverna di “’gnura Cuncetta”, l’ostessa, “un fimminuni barbuto, muscoloso e alto otto palmi abbondanti”, nel piccolo borgo del Capo d’Orlando, ove giunge dopo aver “firriato la Lecca e la Merca”, ovvero i paesotti di Naso e di Ficarra, luogo il Capo d’Orlando ove gli vengono elogiati i sopraffini piatti della taverna: Corpu di l’ariu! Mi vi pigghia un sintomu maligno e ‘na malanova! Haiu lu piscistoccu supra lu focu e puru lu sucu pri li maccarruni! N’auta vota! Dutturi, vi piaci lu piscistoccu alla gghiotta? E li maccarruni di casa? Lu sentiti lu ciaru? Ché sembra proprio di sentirne l’olezzo che sa d’unto quanto basta per renderlo indimenticabile. Ché l’opera nuova di Giuseppe Sicari è anche rivisitazione di percorsi, di memorie e di ricordi laddove registra, forte della memoria del dottor Mussumeci, che “il castello e il territorio del Capo d’Orlando fanno parte della baronia di Naso che ho visitato il mese passato. Il profilo dell’estremità rilevata del promontorio ricorda, soprattutto per chi arriva dal mare, la ben più maestosa rocca di Cefalù. Per questo gli invasori arabi avevano chiamato questo luogo  Gafludi as Sugrà, la piccola Cefalù. L’attuale denominazione, invece, è legata alla leggendaria figura di un paladino del re di Francia, Rolando, detto anche Orlando”. E poi San Marco e San Filadelfio. Un viaggiare che è un’avventura di storia, di luoghi, di odori e di sapori, di luci e colori. Ed i personaggi a turno s’affacciano su di un palcoscenico che è maestoso e che è la terra di Sicilia. È che in quel girovagare, verso un luogo che fosse soprattutto di pace, l’ultima stazione segnata è quella di Alicata. Un luogo ove i “segni” – seppur nascosti o non visti - della storia narrata si ricompongono tutti e consentono all’Autore di sostenere, a proposito del girovagare del Prospero Mussumeci, medico ed ebreo, che “forse, (…), ha finalmente trovato un passaggio per le ‘sue’ isole e vi si è diretto senza perdere altro tempo. Non lo biasimo, dunque, anzi! Sì, perché l’importante è questo: arrivare prima o poi all’isola che abbiamo cercato per tutta la vita, si chiami Dindima o Pasqua,Tahiti o Sant’Elena. Spesso, poi, non si trova agli antipodi, ma a poche bracciate dal luogo dove stiamo e da dove l’abbiamo sempre agognata”. I “segni”, nella storia, ci stavano tutti.  

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