"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 10 novembre 2013

Capitalismoedemocrazia. 40 Destini globali.



Vola bassa la politica nel bel paese. La sua inanità ha qualcosa di speciale, di unico, della quale è difficile assai definirne i contorni. Nella inanità della politica del bel paese ci sono tutta l’inconsistenza e l’inutilità che si possano concepire. Basterebbe dare uno sguardo al calendario politico del bel paese. Continua la manfrina della “decadenza”. Bon, che come ben s’intende, il francesismo ha il significato di “bello”. Un bello spettacolo, tanto per intenderci. E poi ci sono le “primarie”. Bon, che, per rimanere al francesismo in uso, non è proprio un bel vedere. E quando è toccata dai problemi forti ed alti, la politica del bel paese annaspa. Farfuglia. Emana borborigmi - dal greco βορβορυγμός – tipici delle cavità gastriche in difficoltà. Il confronto tra le parti avviene sempre ai più bassi dei livelli. E se c’è da alzare lo sguardo, per esempio all’Europa, è tutto un proliferare di insensatezze e di banali parole d’ordine che non riescono a costruire una opinione politica e pubblica condivisa. Ha scritto sul quotidiano La Repubblica del 6 di novembre Barbara Spinelli, una delle mie Muse – “Europa, l’ufficio delle lettere smarrite” -: Populismo è un’ingiuriosa parola acchiappatutto che non spiega nulla. Come spesso nella nostra storia, è sotterfugio autoassolutorio di chiuse oligarchie: lo spiega Marco D’Eramo in uno dei migliori saggi usciti in Europa sul populismo come  spauracchio (…). Serve a confondere l’effetto (la rabbia dei popoli, il suo uso) con la causa (l’Europa malfatta, malmessa). Letta fa la stessa confusione, (…). La questione di fondo è (…) un’altra. La questione di fondo è che il mondo va avanti secondo un percorso che solamente le grandi dimensioni, le grandi aggregazioni – politiche ed economiche -, potranno influenzarne la direzione. Questa lapalissiana verità non entra mai a far parte dei voli raso-terra della politica del bel paese. Scrive ancora Barbara Spinelli: Non il nome interessa sapere, ma perché in Europa cresca un’umanità così infelice, disgustata. Chiamarla populista o reazionaria è fermarsi alle soglie del perché. La domanda sulle radici del grido è elusa. E la risposta è inservibile, se proteste e proposte tra loro tanto dissimili vengono espulse come grumo compatto che intasa chissà quale progresso. Bollare un intrico di sdegni e rifiuti vuol dire ignorare che l’Europa di oggi distilla veleni cronici. Non basta dirla per farla, alla maniera performativa dei governi attuali. Vuol dire nascondere quel che pure è evidente: nazionalismo e conservazione sono vizi che affliggono i vertici stessi e le élite degli Stati dell’Unione. E nel maggio del prossimo anno anche l’Italia sarà chiamata a parlare d’Europa, con un voto. Come se ne parlerà? Se ne sta di già parlando? Dichiara Martin Shulz – quello indicato al ruolo di Kapò da quel buontempone del signor B. e che è attualmente presidente del Parlamento Europeo e candidato dei socialisti d’Europa alla guida della Commissione dell’Unione Europea -: Non riduciamo il dibattito a una battaglia tra pro e anti europeisti. Offriamo la scelta tra un’Europa di centrodestra e un’Europa di centrosinistra. È questo il parlare giusto, con una fuoriuscita dal mucchio secondo idealità e visioni contrastanti se non opposte. Sta avvenendo tutto ciò in Italia? Siamo precipitati ai livelli più bassi della prassi politica: poiché ci sentiamo fuori dalle ideologie? Continua Barbara Spinelli: L’Europa così com’è non è minacciata dalla rabbia (…) dei propri cittadini. È minacciata da governi restii a delegare sovranità nazionali non solo finte ma usurpate, visto che sovrani in democrazia sono i popoli. La crisi del 2007-2008 la tormenta smisuratamente a causa di tali storture. Un’austerità che accentua povertà e disuguaglianze, un Patto di stabilità (Fiscal Compact) che nessun Parlamento ha potuto discutere: l’Europa che si vuol ripulire dai populismi è questa. (…). Le menzogne «servono a trasferire la colpa delle debolezze nazionali dalle spalle dei cleptocrati a quelle del popolo che lavora duramente». È un’alleanza che non ha più opposizione da quando la sinistra classica ha adottato, negli anni ’90, i dogmi neoliberisti. Gran parte della popolazione è rimasta così senza rappresentanza: smarrita, dismessa, punita da manovre recessive che paiono esercitazioni militari. È questa parte (una maggioranza, se contiamo anche gli astensionisti) che protesta contro l’Europa: a volte sognando un irreale ritorno alle monete e alle sovranità nazionali; a volte chiedendo invece un’altra Europa, che non dimentichi il grido dei poveri come seppe fare tra il dopoguerra e la fine degli anni ’70. (…). Se nulla si muove l’Europa sarà non più riparo, ma luogo che ti espone, ti denuda. Tenuto in piedi da élite di consanguinei – che campano di favori personali fatti e ricevuti senza che dubbio li sfiori (è il caso Cancellieri); che annunciano una ripresa smentita dai fatti (…). Poiché, nella ristrutturazione delle economie planetarie le dimensioni avranno il loro peso politico ancorché economico. Il movimento tellurico che si intuisce ma non si vede ancora delle economie nei prossimi anni trova attenzioni e significative risposte laddove tutto ciò ha un valore ed un significato. Ma non nel bel paese. Riporta in una corrispondenza Federico Rampini – “Obama accusa la Cancelliera e la difesa è il mini-dollaro” – sul settimanale Affari&Finanza del 4 di novembre -: La Germania trascina a picco l'intera eurozona. Non solo soffoca la ripresa altrui imponendo politiche di austerity che accentuano la crisi, ma si sottrae alle proprie responsabilità puntando su un modello di crescita trainato dall'export, incompatibile con le necessità dei suoi vicini. (…). Gli argomenti, sono quelli che Barack Obama ha usato fin dall'epoca del G-20 di Pittsburgh, nell'autunno del 2009. Si tratta di una "dottrina Obama" che peraltro è ampiamente condivisa da tutti gli economisti keynesiani. In sostanza, se il mondo soffre di squilibri tra nazioni che consumano troppo (America) e nazioni che risparmiano troppo (Germania, Cina, Giappone), l'aggiustamento va fatto da ambo le parti. Alcuni devono aumentare la propria propensione al risparmio. Altri devono consumare di più, e così facendo finiranno per importare di più. Non si può immaginare che l'aggiustamento avvenga da un lato solo, per il semplice motivo che gli squilibri sono simmetrici e interconnessi. Se tutti gli Stati volessero avere un eccesso di risparmio e una bilancia commerciale in attivo (…), la Terra dovrebbe riuscire ad avere un saldo in surplus con qualche altro pianeta. Il fatto che la Germania dia lezioni di buona gestione agli altri, ma si rifiuti di aumentare i consumi e l'import, non è soltanto un controsenso economico. È anche una strategia distruttiva verso gli anelli deboli dell'eurozona. (…). …quell'accusa del Tesoro americano è legittima, è giusta, è sacrosanta. Farebbero bene a impadronirsene Enrico Letta e François Hollande. In effetti quel documento del Tesoro americano risponde a un'esigenza ben più pressante per l'Italia e la Francia, che non per gli Stati Uniti. La politica avrebbe bisogno d’alzare lo sguardo. Le è forse impossibile, presa com’è da quel solipsismo che nelle sue forme più deteriori diviene un individualismo esasperato di singole persone o di intere caste. Come per la politica del bel paese, per l’appunto. È su questi scenari e su questi temi forti che la politica dovrebbe provare a misurarsi. Il resto è un blablabla inutile e fastidioso. Poiché anche dall’altra parte del mondo si osserva il divenire degli scenari prossimi venturi. Scrive Giampaolo Visetti sullo stesso numero del settimanale Affari&Finanza – “Pechino al bivio duello al plenum tra stato e mercato” -: Negli ultimi 15 anni, l’economia cinese non è mai cresciuta tanto lentamente. Viaggia tra il più 7,5 e il più 7,8%, rispetto alle due cifre di quattro anni fa. La crescita è quasi dimezzata e gli analisti prevedono la stagnazione attorno al 2020. Senza il traino di Pechino, la Cina e il resto del mondo si troverebbero ad affrontare problemi inediti, per il capitalismo hitech. La necessità di allontanare tale spettro è la ragione che assegna una missione storica al prossimo Comitato centrale del partito comunista, dal 9 al 12 novembre. (…). I 200 membri del plenum sono davanti ad un bivio: spingere la Cina sempre più verso l’economia privata, per allontanarla dalla dipendenza dalle esportazioni, oppure riportarla verso il monopolio di Stato, per affrancarla dai consumi interni. La prima via, quella riformista, è promossa dal presidente Xi Jinping e dal premier Li Keqiang, spaventati dalla prospettiva di una stagnazione che possa minare la stabilità del Paese. La seconda è sostenuta da ampi settori della sinistra del partito, che teorizza il neo-maoismo come risposta alla crisi del capitalismo finanziario dell’Occidente. Dietro ai nuovi leader si schierano le piccole e medie imprese private, stanche di apparati burocratici corrotti che favoriscono la posizione dominante dei colossi pubblici. I nostalgici di un sistema maoista sono appoggiati invece dalle famiglie che dominano le grandi imprese, le banche, le assicurazioni e le materie prime, formalmente di Stato, ma nella sostanza casseforti dei pochi clan che hanno governato la nazione negli ultimi quarant’anni. (…). La seconda potenza mondiale è chiamata a scegliere anche il suo profilo produttivo. E noi a fare i vasi di terracotta. E la politica dove sta? Che fa?

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