"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 13 ottobre 2013

Uominiedio. 11 Una certa idea della vita.



  • E poi ci sarebbe una certa idea della “vita”. Scrivevo il 5 di febbraio dell’anno 2009 – “Di una vita pienamente umana” -: (…). Scrivo da non credente. A me pare, semplicemente, che il divario tra il credente ed il non-credente passi per la “visione” che si ha del concetto proprio di vita. E nella mia riflessione non voglio assolutamente lasciarmi trascinare dalla mia “educazione scientifica”. La linea di confine è collocata proprio in quella “visione” della vita: angusta, poiché rivelatasi nell’occasione irrimediabilmente materialista da parte dei sedicenti credenti, che legano, nella vicenda della sfortunata Eluana, la loro difesa della vita alla difesa di “quella vita” ridotta alla sola materialità o meglio, con minore crudezza, alla sola forma biologica; di grande spessore e che vola alta invece e come insufflata da un anelito di insperata “spiritualità”, messa laicamente tra virgolette, la “visione” espressa nell’occasione dai cosiddetti non-credenti o laici che dir si voglia, che usurpano quasi quella “visione” della vita che dovrebbe essere propria dei credenti nel senso non solo strettamente lessicale. E mi fermo a questo punto su quel “citarsi addosso” di woodyana memoria. Poiché una certa idea della “vita” rientra a buon diritto nella cosiddetta “sovrastruttura”. Idea che non è negoziabile. Riporta il teologo Vito Mancuso – sul quotidiano la Repubblica del 13 di settembre ultimo, “Il Papa, i non credenti e la risposta di Agostino” -: Il cardinal Martini, (…), amava ripetere la frase di Bobbio: "La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa". Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un'apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti). (…). …per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. (…). È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Ben detto. Che prova a mettere nei giusti limiti ed al riparo dalle “esagerazioni” del momento gli scambi epistolari di questo giorni del secolo ventunesimo. Poiché le differenze, pur su di un piano di parità dialogante, devono pur esserci. Ma avviene, poiché è sempre avvenuto, che una delle posizioni in dialogo tenti di divenire la posizione “erga omnes”. Ovvero, una certa visione della “vita” che annulli le differenze. Scrivevo in quel tempo infuocato da un contesto da tragedia: Come è possibile porsi a difensori di una vita che non abbia una “consapevolezza” del proprio “essere”, del proprio stato, di una vita che non abbia nulla di vita di relazione con gli altri e con la propria individuale storia? Quei difensori della vita, di una vita ripeto ridotta allo stadio biologico, dovrebbero, a rigor di logica, erigersi coerentemente a difensori di tutte le forme di vita biologica; tralasciando le forme microscopiche per la loro intrinseca non visibilità nel mondo reale dei sensi ed andando su su per la scala della complessità biologica, dovrebbero erigersi a strenui difensori dei platelminti, così come dei celenterati, e degli artropodi, e dei molluschi, per non dire del resto dei vertebrati se non dei rimanenti mammiferi. Niente di tutto ciò. Istruiti alla parola della provvidenza che sia divina, abbacinati da un credo che li conduca a ritenersi creati “a somiglianza” di un’entità assolutamente astratta (dio!), hanno i credenti occupato il pianeta  chiamato Terra da padroni assoluti e con i comportamenti conseguenti verso tutte le altre forme di vita biologica. La “sacralità” della vita umana ridotta al solo aspetto biologico rimasto viene tirata fuori nella vicenda tristissima di Eluana; quella vita non più umana, ma soltanto biologica, vita difesa con altisonanti proclami, e manca poco che si invochino le ire e le saette dell’astratta identità superiore che tutto ha creato. Mi sconcertano queste tristissime vicende del tempo nostro. È come se gli uni, ovvero i credenti, avessero perso i connotati loro, il loro anelito alla trascendenza, la loro visione della vita che travalica, o che dovrebbe travalicare per l’appunto l’angusta “visione” della vita ridotta allo stato “miserevole” (quante mortificazioni della carne hanno dovuto assaporare i credenti di questo mondo) della corporalità. È così che la “sovrastruttura” di una parte diviene la “sovrastruttura” per tutti. Ecco perché mi appaiono fuor di luogo gli entusiasmi suscitati, in particolari ambienti di pensiero, da tutte quelle epistole che sembrano volteggiare sulle nostre teste, sulle nostre coscienze. In una Sua riflessione – “Perché non amo il papa pacione” su “il Fatto Quotidiano” del 28 di settembre - Massimo Fini ha scritto: Nell’evangelizzazione c’è (…), in nuce, il vizio oscuro di tutta la storia dell'Occidente, il tentativo di reductio ad unum dell’intero esistente. L’evangelizzazione partorirà molti figli, apparentemente diversissimi. Il primo sarà l’eurocentrismo, il colonialismo europeo che si basa, almeno a partire dal XV secolo, sulla distinzione fra culture “superiori” e “inferiori” e il dovere delle prime di portare la civiltà alle altre. Il secondo figlio – anche se può apparir strano – sarà l’Illuminismo che a Dio sostituirà, assolutizzandola, la Dea Ragione. La Rivoluzione francese e le truppe napoleoniche si incaricheranno di esportare, sulla punta delle baionette, questa inedita “buona novella”. Il terzo – il che può apparire ancora più strano – sarà la Rivoluzione sovietica che, sotto il manto del materialismo scientifico e dell’internazionalismo proletario, tenterà di ricondurre tutto il mondo sotto il suo modello (…). Il quarto, il più compiuto e realizzato, è il modello di tipo capitalista. La sua formidabile espansione si basa su una sorta di evangelizzazione mercantile e tecnologica che ha al suo fondo la convinzione che questo sia “il migliore dei mondi possibili”. È in virtù di questa convinzione che ci siamo intromessi in tutte le altre culture, assimilandole o, quando non è stato possibile, togliendole brutalmente di mezzo. Dio ha preso le forme della ruspa. Quando Bergoglio afferma che “senza lavoro non c’è dignità” non so se si renda conto che così si inserisce, a pieno titolo, nonostante le parole su solidarietà e misericordia, in questo modello disumano. Un suo predecessore, un po’ più autorevole, San Paolo, che la Chiesa l’ha fondata, definiva il lavoro “uno spiacevole sudore della fronte”. Io non sono credente ma, pistola alla tempia, sto con Paolo non con Bergoglio.  Il dito nella piaga, in quella che l’illustre chiama “evangelizzazione” che è da sempre il tentativo non taciuto di “reductio ad unum dell’intero esistente”. Anche su quella certa idea della “vita”. Scrivevo oltre: Ma lo stato “miserevole” della corporalità non dovrebbe rappresentare per i credenti solamente uno “stato del passaggio” verso quella vita gaudiosa che li attenderebbe oltre l’azzurro del cielo? È, quest’ultima, la visione della vita che manca al non-credente, al laico in quanto tale. In questa tristissima vicenda di Eluana sembra che le parti si siano invertire, come da un blasfemo copione. Preciso meglio. Ho sempre creduto e sostenuto che l’unica “singolarità” che renda l’uomo “veramente umano” sia la sua percezione della inevitabile e sempre imminente “fine”. Fine della propria corporalità, non della Storia. Solamente l’uomo veramente “umanizzato” – reso umano sin dall’atto del concepimento, dallo stadio di zigote o magari oltre? difficile questione assai – ha questa consapevolezza che lo distingue da tutte le altre forme viventi. Ho sempre sostenuto come sia impropria se non da considerarsi sommamente “errata” la tanto abusata espressione “venire al mondo”: “venire al mondo” al pari di un verme qualsiasi, al pari di una formica qualsiasi ecc. ecc. Tutte le forme biologiche nascendo “vengono al mondo”. Non per l’essere umano “umanizzato”. Per l’uomo penso debba valere meglio il suo “venire nel tempo” che sta ad indicare la sua consapevolezza di essere venuto sì al mondo ed al contempo la sua consapevolezza di “doverne immancabilmente uscire”. Quale altra specie biologica condivide con l’umana specie tale consapevolezza? Nessuna specie biologica che io sappia. Nella scala della complessità biologica le varie forme viventi hanno sviluppato anche “sensibilità” al dolore, alla familiarità, alla filiazione, alla sessualità, ma nessuna forma biologica, che io sappia, ha sviluppato la consapevolezza propriamente umana di “venire nel tempo”, di “essere nel tempo”, di essere “entrati nel tempo” e di dovere un giorno “uscire dal tempo”. E fermo a questo punto quelle mie riflessioni. È possibile concedere “sconti” su questa che è una certa idea della “vita”? È possibile farsi soverchiare da una certa “sovrastruttura” che neghi, in determinate, sfortunate circostanze della vita, queste particolarità dell’essere vivente chiamato uomo, totalmente uomo? Il dialogo è dialogo se non è impari. Altrimenti ne segue l’assolutismo. E l’assolutismo è la negazione dello stato di umanità.

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