"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 22 luglio 2013

Eventi. 9 “Uno strano funerale”.



Dobbiamo – devo – alla passione, alla intelligenza ed alla tenacia dell’instancabile Franca Sinagra Brisca il riemergere, dalle fitte nebbie che avvolgono spesso la memoria storica dei popoli, della figura nobile ed altissima del perseguitato politico che ha nome – poiché nella “memoria” si continua a “vivere” - Francesco Lo Sardo – Naso, Sicilia, il 22 di maggio dell’anno 1871; Napoli, il 30 di maggio dell’anno 1931 -. Dobbiamo – devo – a Franca Sinagra Brisca aver potuto partecipare anni addietro, in quel di C***, ad un convegno celebrativo della memoria di quel grande martire e precursore della Resistenza, memoria andata perduta in un mondo affetto da “cecità” ed indifferenza. Riporta Mimma Paulesu Quercioli, nel volume edito da Feltrinelli (1977) “Gramsci vivo nelle testimonianze dei suoi contemporanei”, una frase di quel grande - che al tempo scontava la pena nel carcere di Turi, in compagnia di quell’altro grande che è stato Antonio Gramsci – in risposta a coloro che lo sollecitavano ad inoltrare domanda di grazia : « Hanno voluto la carne e si prenderanno anche le ossa. Io non firmo». Ed oggi, un dono inatteso pervenutomi da Franca Sinagra Brisca: il Suo straordinario racconto “Uno strano funerale”. Un dono inatteso ed un privilegio allo stesso tempo, potendone disporre, su gentile concessione dell’Autrice, su questo blog. Fu al termine di quel convegno che, avvicinato da una signora piacente e distinta, ebbi a sentire commenti non proprio teneri sul “colore” politico dell’avvenimento. Ebbi a rispondere, alla distinta, piacente signora, come ai tempi cupi di Francesco Lo Sardo anche un altro personaggio di una grande famiglia liberale avesse scelto i “comunisti” di allora per combattere la tirannide nera: Giorgio Amendola, figlio del liberale Giovanni Amendola. È che i “comunisti” del tempo erano tra i pochi a combattere senza tregua la tirannide fascista. A giorni è il 25 di luglio. 70 anni dal 25 di luglio del “Gran consiglio”. Finiva la rappresentazione in cartapesta del fascismo. Si dava inizio ad una indimenticata tragedia storica e sociale. Ha scritto su la Repubblica di oggi – “La pastasciutta della memoria” – Jenner Meletti su quel 25 di luglio di 70 anni fa: “Alcide Cervi e i suoi sette figli, quella sera del 25 luglio 1943, non avevano ascoltato la radio. Dovevano alzarsi presto, per portare a casa il secondo taglio di fieno. Per questo alle 23,15 — quando ci fu il grande annuncio — erano già a letto. «Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza Benito Mussolini... ». La notizia arrivò il giorno dopo, nell'aia della famiglia Cervi”. Il racconto, ora, di Franca Sinagra Brisca.

All’attracco del porto ferroviario di Messina un numero esiguo di persone vestite di nero, molto dignitose e quasi eleganti, puntavano gli occhi all’acqua livida dello Stretto, corazza metallica cosparsa di lame d’acciaio luccicanti, il loro sguardo vitreo coglieva, oltre la grande pancia galleggiante del traghetto bianco in lento avvicinamento, altre squame d’opaco biancore sull’altra sponda, le case di Villa San Giovanni avvolte nell’aria tersa del mattino. Tre squilli d’avviso per l’approdo imminente erano già stati lanciati insieme al fumo della ciminiera, gonfiatosi in uno sbuffo. Erette sulla schiena, alte e affusolate, battute dal vento instancabile di quel corridoio marino naturale, quelle sagome sarebbero potute sembrare pali vestiti da umani, se non che c’era là in mezzo uno sventolio nero di gonna, a indicare che una donna era sicuramente fra loro, Teresina Lo Sardo, da troppi giorni vedova priva di cadavere. Rimasero immobili quando lo scafo beccheggiando imboccò l’invaso, nonostante avessero sentito riflesso nelle proprie ossa lo squassare del cadavere amato che fra poco sarebbe stato vomitato fuori bordo e restituito a loro, che l’adoravano d’immenso pianto e amore. Non potevano immaginare, per consolazione,  che la storia avrebbe risollevato di lì a una decina d’anni la loro umanità ferita a morte, che questo sarebbe avvenuto nella storia d’Italia per mano di altri, della Resistenza, loro già messi fuori gioco in quel punto della vita. Non potevano prevedere cosa riservasse il futuro, conoscevano soltanto la crudeltà disumana di una popolazione irretita nei peggiori dei comportamenti  che un amico professore, di cui s’erano perse le tracce, aveva definito con frase latina “homo homini lupus”. Parve ai soli occhi di Teresa, ma ne ebbe la sicurezza interiore, il volto di quell’amico essere lo stesso apparso un attimo solamente affacciarsi alla ringhiera della nave lasciando cadere in mare, con statuario gesto di accompagnamento, un garofano rosso*.  Sotto la tesa nera a Teresa sembrò d’aver riconosciuto una certa ampia fronte scendere sul profilo del naso aguzzo, nel momento in cui l’apparizione aveva sollevato il cappello come a ripararsi da una ventata inesistente che glielo avrebbe scalzato, proprio nel punto in cui la nave urtò in entrata  contro i respingenti e i parabordi dell’invaso. Quella visione arrivò a Teresa come una carezza, dedusse che il suo uomo era stato scortato da un pari, l’amico professore Concetto, e avvertito il pericolo incombente sul clandestino a bordo, bloccò perfino il pensiero dal proferirne il cognome, mentre ancora un assalto del cuore le ricordò la sua tacita presenza nella dovizia di libri per  Francesco che riusciva a fargli pervenire direttamente dall’editore. Fu strazio interiore il fragore dell’uscita del treno merci dalla cerniera di poppa, mandibola spalancata della nave, con stridio si ferraglia e scossoni sui binari. Poi senza incertezze avvenne lo spostamento, compatto a passo svelto, del gruppo dei personaggi in nero lungo il marciapiede che dall’attracco porta in linea dritta al primo binario della stazione; la macchia nera era adesso contrassegnata da un punto centrale rosso vivo trattenuto al petto da Teresa, il suo mazzo di garofani, ultimo contatto di sé col suo uomo. Dal portellone scorrevole del vagone merci quattro di loro, pieni di asciutta commozione, da due piantoni militari ricevettero sulle spalle la reliquia leggera che c’era nella bara,  curvi sotto il peso dell’ingiustizia e già esausti per l’attesa. “Mio marito è stato ucciso consentite che almeno mi sia restituito il cadavere” aveva telegrafato a Mussolini la moglie Teresa Fazio in Lo Sardo, quella donna magra che lì pareva di vetro tagliente tanto era rigido lo sforzo di non urlare e antica l’abitudine  temprata a non reagire per non soddisfare il piacere sadico di chi la morte aveva preso a usarla per dileggio. Gli uomini s’erano scoperti il capo e accennato un inchino, quindi si avviarono muti all’uscita dopo che la signora Teresa ebbe deposto sulla bara un bacio portato dalla bocca sulla punta delle dita insieme al mazzo di garofani rossi. Fuori li attendeva un semplice carro funebre a un tiro, nerissimi il carro e il cavallo. Nel rapporto della questura del 6 giugno 1931, redatto nelle prime ore del pomeriggio, si legge: - Treno ore 6.15 giusta intesa questura Napoli è qui arrivata salma condannato politico Lo Sardo Francesco che proseguita immediatamente per Gran Camposanto ove in atto avviene tumulazione avvenuta senza alcuna pompa e feretro est proseguito cimitero seguito appena qualche congiunto e per itinerario prescritto Questura. Nessun incidente. Personale servizio Polizia ha proceduto fermo sei comunisti sorpresi isolatamente lungo percorso con probabile intenzione seguire carro funebre - Una strana cassa di legno chiaro, forse di comune pioppo con evidenti listelli assemblati alla meno peggio, camminava a passo normale appena oltre il marciapiede sulle gambe lunghe di quattro uomini in nero con cappello e, a seguire,  quella donna  con veletta nera le cui mani, che prima reggevano i fiori, erano ora intrecciate saldamente alla cintura, la testa appena piegata a sinistra e ormai bianchi i capelli, sostenuta sottobraccio sicuramente da un parente stretto, uno dei suoi fratelli il maresciallo Salvatore, i cognati ingegnere Giovannino e Giuseppe, il caro nipote avvocato Ciccino, i nipoti dottor Salvatore e un giovane, forse Vincenzo. L’estrema austerità nel silenzio totale dell’ora mattutina rosata e l’incedere cadenzato, conferivano alla scena un carattere di irrealistica atroce solennità. Fuori dalla tettoia della stazione nella piazza inondata di luce, il legno fu accolto nella pancia del carro funebre tirato come d’uso da un cavallo in gualdrappa nera, e una nuova macchia nera semovente, ma sbriciolata e complessa, si mosse verso il Gran Camposanto fra due file di poliziotti neri, obbligata a un percorso a gimcana per vie secondarie.  Lungo la strada lo sbattere di un’imposta persiana, aperta da una donna prosperosa che restò interdetta a guardare, nell’ immobilità istantanea ruppe il silenzio teso e sembrò commentare: “Madre di Dio,  e che c’è il pericolo che il morto scappi o è l’imbroglio di una carrozza piena di dinamite?”. Altri tizi con manganello in camicia nera, a cui lo schermo dei muri a quell’ora  ricusava al sole di proiettare l’ombra sul basolato, e altri in borghese ma simili nel comportamento a scatti e nell’occhiuto sguardo controllore, erano sparsi tutt’intorno per un centinaio di metri. Sulla via deserta sbucavano dalle  traverse, qua e là alla spicciolata, uomini con le mascelle serrate e i pugni stretti in tasca, qualcuno riconoscibile per il bavero della giacchetta alzato fin sotto la coppola, che dava subito una occhiata finta indifferente alla bara, per proseguire a torto con lo stesso passo del funerale, ma senza affiancarsi, e qualcun altro commise l’ingenuità di scoprirsi il capo, confidando nell’ovvio atto di civiltà per l’usanza funebre. Era stata vietata la partecipazione a quel funerale e sapevano i rischi infelici della disobbedienza. Quello era il feretro di un gran politico, nientemeno che il siciliano Francesco Lo Sardo deputato al Parlamento Regio a Roma, fatto morire di stenti in carcere, secondo dopo il primo assassinio impunito del collega Matteotti. La presenza furtiva di quegli avventori durava poco, perché scomparivano improvvisamente in una traversa o in un portone spalancato a bella posta lungo il percorso, atterrati da una manganellata o costretti dal perentorio ordine fascista di chi s’era accostato proditoriamente, per fargli sentire la bocca d’una pistola puntata al petto o alla schiena.  Pur avvertiti del divieto categorico e consci dell’inevitabile pericolo, alcuni antichi compagni di strada e di lotta di Francesco vollero testimoniare  per l’ultima volta  la vicinanza a quel relitto, che ancora in quelle condizioni continuava a rappresentare un grande significato politico e una scelta di vita morale. “Il coraggio e la fede, in questi tempi, sono la virtù di pochi. Amo essere tra questi pochi” aveva scritto dal carcere. Rappresentava un baluardo dell’antifascismo, che i mandanti dell’assassinio, incapaci di distruggerne l’eredità immateriale, intesero occultare passando sotto silenzio per cinque anni, prima il sequestro immotivato e poi il mortale abbandono carcerario,  ora incarogniti nel divieto della cerimonia funebre. Ma si può chiamare funerale questo  sparuto numero di nerovestiti attorno a una cassa senza corone né suono di campane, con un semplice mazzo di fiori comuni evidentemente raccolti nel giardino di casa? Quale sentenza poteva non risparmiare i morti e infierire su quel deputato facendone un morto così derelitto anche nelle esequie?  Ad ogni incrocio sostavano altre guardie antirapina del feretro, che non doveva essere indagato né sulle cause né sul giorno del decesso, tanto meno rapito e sequestrato da una folla di elettori inferociti, contadini e operai per lo più, per offrirgli esequie più onorevoli. Era in campo la certezza che qualsiasi rito funebre sarebbe diventato una manifestazione di popolo rivelatrice di insofferenza politica e di ribellione, ma era in campo anche la disumanità dittatoriale che da lì a qualche anno darà prova della sua ferocia nelle deportazioni e nell’uso delle camere a gas per lo sterminio organizzato, nella cui speciale attenzione era compresa la razza ribelle e idealista dei comunisti. Lo scalpiccio martellante del cavallo sull’asfalto si sentì lungo tutto il tracciato contorto per vie secondarie, cosparse di sporcizia a Messina più di quanto non siano solitamente nelle città portuali; nel deserto umano, raggiunsero l’entrata nel Gran Camposanto le stesse sole persone che c’erano all’imbarcadero. Per l’occasione speciale in impeccabile camicia nera, il custode del cimitero li aspettava a pochi passi a sinistra del cancello con due laceri aiutanti, la tomba di famiglia interrata già aperta e il loculo in vista: avrebbe controllato la tumulazione con apposizione di lastra in segno di “ capitolo chiuso per sempre”. Teresa Fazio Lo Sardo sarebbe tornata a vivere nella sua casa circondata da oggetti che le avrebbero ricordato quel marito tanto amato e tanto sofferto, questa volta  definitivamente sola ad aspettare l’evolversi degli eventi politici, un panta rei che conosceva bene. Aveva vissuto l’eccezionalità di due  funerali irregolari perché irrituali, eventi ambedue che, con l’aggravante dell’ingiustizia da riscattare, renderanno nella madre e nella sposa quelle ferite non rimarginabili. La sua vita travagliata s’era svolta  dai bucolici pascoli dell’infanzia sui Nebrodi alla vecchiaia inconsolabile funestata due volte da dolore amarissimo, prima della perdita del figlio Ciccinuzzo nel terremoto del 1908 e ora del marito Francesco nella barbarie delle carceri fasciste.

*Nota dell’Autrice. Il riferimento alla presenza di Concetto Marchesi riprende la leggenda del garofano da lui gettato nello Stretto al passaggio del feretro, secondo una testimonianza orale raccolta nel 1982 da S. Saglimbeni .

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