"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 29 luglio 2013

Cronachebarbare. 17 Se foste Voi il giudice.



Se foste Voi il giudice. Scrive in “punta di diritto” Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” del 27 di luglio 2013 – “Fisco, si fa presto a dire «necessità»” -: La legge prevede da millenni le cosiddette “scriminanti”, dette anche “cause di giustificazione”. Tra queste c’è lo “stato di necessità”, art. 54 del codice penale: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. Come sempre, l’interpretazione della legge va fatta con attenzione. Fin qui il fine giurista. Ed il costume di un paese? Anzi il malcostume? Due fatti. Incontro l’amico divenuto nel tempo intraprendente imprenditore. Avrò il fatto già raccontato. Da artigiano è divenuto nel tempo un “rampante”. Gira in Suv nera, come prescritto. Non ha la semplicità di un tempo ma è divenuto sussiegoso. Il nuovo stato ne ha fatto una persona diversa. In quell’occasione ha avuto modo di deplorare uno Stato vampiro a suo dire. Ché, spiega, se lui non avesse evaso gli obblighi fiscali non avrebbe potuto realizzare quel che ha realizzato. Cose da inorridire. Dette con una sfrontatezza che non ha eguali. Alla mia risposta intransigente che non vi era giustificazione alcuna all’evasione degli obblighi fiscali – nel contempo il rampante usufruisce di tutti i servizi di uno stato sociale colabrodo – pur di divenire un nuovo rampante in Suv, non ne è apparso pienamente convinto ed il suo saluto è stato, nell’occasione laconico e senza il calore emotivo di altre occasioni. Il suo “stato di necessità”? Ampliare la sua attività di imprenditore. Ma al contempo, senza vergogna alcuna, godere dei servizi e dei sussidi dello stato sociale pagato dagli altri. Aggiunge Bruno Tinti: Il pericolo deve essere attuale (l’attualità è variabile: ho fame oggi; il bilancio chiuderà in perdita tra un anno); se non è così, c’è tempo di cercare soluzioni alternative. Il danno deve essere grave, per restare all’esempio, abbiamo fame, i bambini sono ammalati, l’azienda chiude sicché io non guadagnerò più una lira e i dipendenti perderanno il posto di lavoro. Il fatto (illecito) deve essere proporzionato al danno: se il problema è che non posso cambiare l’automobile o andare in vacanza; o che devo abbandonare la casa per andare ad abitare in una più piccola; in questi casi non potrò invocare la scriminante: non ho un diritto insopprimibile a vivere agiatamente. Ma soprattutto il pericolo non deve essere volontariamente causato. Questo è il punto fondamentale. Se ho vissuto come un nababbo negli anni grassi senza accantonare riserve o se ho fatto investimenti imprudenti; allora non posso scaricare sulla collettività le conseguenze delle mie scelte sbagliate, appropriandomi dei soldi dello Stato o facendo mancare il mio contributo, obbligatorio ex art. 53 della Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. (…). Cosa succederebbe se si potesse impunemente rubare un sandwich, giustificandosi poi con la Polizia dicendo: “Avevo fame”? Magari è anche vero. Ma se hai in tasca un pacchetto di sigarette che ti è costato 4 euro, la risposta sarà: “E perché non hai comprato pane invece di sigarette?”. Naturalmente questo è solo un esempio; ma bisogna rendersi conto che lo “stato di necessità” è una cosa seria: proprio non si può fare altrimenti; e non deve essere colpa tua se non si può. Fassina forse non lo sapeva. (…). Se Voi foste il giudice. Dall’imprenditore rampante, senza doveri sociali, ad una storia minima condominiale. La solita noiosissima, interminabile “riunione condominiale”. Bla, bla, bla… Ed il solito caso del condomino moroso. Che espone il suo “stato di necessità”. In questi termini precisi: che sia preferibile comprare il ciclo al figlioletto che pagare le mensilità al condominio. Ma intanto usufruisce dei servizi che il condominio provvede ad elargire. Fatto avvenuto nel nostro condominio. Se Voi foste il giudice. In “punta di diritto” Bruno Tinti scrive: Avrebbe senso dire: “Rubare un pezzo di formaggio quando si ha fame è una questione di sopravvivenza”? La risposta giusta è: “Dipende”. L’analogia ha due meriti. Consente di ragionare senza ostacoli ideologici: tutti (o quasi) sono convinti che rubare non sta bene. E poi permette di riflettere sul fatto che una gran parte dell’evasione (quella che riguarda l’Iva o le ritenute d’acconto) consiste nell’appropriarsi di soldi non propri: non si tratta dei ricavi dell’imprenditore o del lavoratore autonomo ma di quattrini che egli riceve perché li consegni al Fisco (Iva) o che egli dovrebbe consegnare al dipendente affinché questi li consegni al Fisco e che invece deve versare direttamente (ritenute). Insomma, molto simile al furto. Allora, perché “dipende”? (…). Il Tribunale di Trento ha ravvisato la scriminante dello stato di necessità nel caso di un imprenditore i cui creditori non avevano pagato, privando l’azienda di ogni liquidità e cagionandole una crisi gravissima. Il Gip di Milano ha sostenuto la stessa tesi nel caso di altro imprenditore, vittima dell’inadempimento della Pubblica Amministrazione. Il Tribunale di Milano ha valorizzato la storia economica dell’azienda e le difficoltà, non a questa imputabili, che le avevano impedito l’assolvimento degli obblighi fiscali. Qual è la differenza tra queste sentenze e l’improvvida affermazione di Fassina? I giudici hanno dichiarato non punibile l’inadempimento fiscale dopo un’indagine approfondita sulla condotta del contribuente, accertando che la situazione di illiquidità non era attribuibile a lui e valutando le conseguenze che ne sarebbero derivate sull’azienda. Il che vuol dire: non versare Iva e ritenute non si può fare, è reato; se non si è versato è perché condotte di terzi, non prevedibili (esiste debitore più affidabile della Pa? E, evidentemente, i debitori dell’imprenditore di Trento meritavano fiducia) lo hanno reso impossibile; una condotta diversa avrebbe cagionato danni gravi, proporzionati a quello cagionato al Fisco. Fassina ha spiegato ai cittadini che B aveva ragione: oltre un certo livello (soggettivo naturalmente: ma come, volete che mi venda la Porsche?) evadere è legittimo. Meglio se se ne stava zitto. Se Voi foste il giudice. Anni addietro Marco Pannella avviò una iniziativa politica affinché venisse abolita la ritenuta fiscale alla fonte a carico dei lavoratori dipendenti – del pubblico e del privato - da riversare all’erario. Si ritenne, dai più della mia parte politico-sindacale, me compreso, improvvida l’iniziativa e non meritevole di sostegno alcuno. A distanza di tantissimi anni, da quel tempo andato, quella iniziativa non mi appare più tanto peregrina. A pensarci bene la fascia sociale del lavoro dipendente non ha mai potuto godere di una “stato di necessità”. Ad ogni inasprimento fiscale, ad ogni torchiatura delle buste paga, ad ogni manovra o manovrina quel parco buoi non ha avuto altro scampo che stringere ancor più la cinghia. Mentre tutto il resto dei rampanti ha provveduto di per sé a creare e fare proprio uno “stato di necessità”. Evadendo. Mollando lo stato sociale ma continuando a godere dei servizi da esso elargiti. Se Voi foste il giudice. Ha scritto Tito Boeri, in “La sopravvivenza dei furbi”, sul quotidiano la Repubblica del 26 di luglio 2013: L’economia sommersa, l’insieme di attività svolte senza pagare tasse e contributi sociali, conta tra un sesto e un quarto del nostro prodotto interno lordo, a seconda della stime. (…). È una piaga nazionale, un fardello che pesa sulla parte più avanzata del nostro tessuto produttivo, localizzata soprattutto nel Nord del paese, costringendola a pagare anche le tasse degli altri (…). Allontana la soluzione dei problemi del Mezzogiorno. Perché l’illegalità alimenta altra illegalità ben più grave: è proprio sullo smercio delle produzioni del sommerso economico che spesso vive e vegeta la criminalità organizzata, come ci ha spiegato con rara efficacia Roberto Saviano. Il sommerso viene storicamente tollerato in Italia. (…). È comprensibile che non si voglia forzare alla chiusura imprese in un momento come questo. Ma perché dobbiamo farne pagare lo scotto alle aziende, anche queste piccole per lo più, che sono in regola? Non sarebbe meglio ridurre la pressione fiscale sul lavoro per tutte le imprese e, al tempo stesso, rafforzare i controlli? La verità non detta da Fassina e da chi ieri lo ha applaudito è che chi oggi vuole abolire le tasse sulla casa, anziché quelle sul lavoro, e vuole tollerare maggiormente l’evasione, ha scelto di far pagare di più le tasse a chi le ha sempre pagate. È una scelta di politica economica conseguente, che ha accomunato i governi di centro-destra, che hanno in gran parte gestito la politica economica in Italia negli ultimi 15 anni. Ieri abbiamo avuto da parte di un sottosegretario aspirante segretario del Pd, un sorprendente segnale di continuità con quelle politiche. (…).

sabato 27 luglio 2013

Cronachebarbare. 16 I “colpi di mano” di luglio.



A proposito di “colpi”. Ci sono i cosiddetti “colpi bassi”. È che essi rimandano all’arte del pugilato ed hanno ben poco da spartire col tema odierno. E poi c’è il “colpo di fulmine”. È che esso rimanda alla sfera emozionale degli umani. Anche se, di recente, ho letto, in una cronaca estiva, di un “colpo di fulmine” – se così lo si potesse denominare - che ha tragicamente ucciso un giovanissimo bagnante. Qual è la probabilità d’essere presi sulla spiaggia, sul bagnasciuga, a piedi nudi ed in costume da bagno da un “colpo di fulmine”? Pochissime. Ci vuole una buona dose di sfortuna. Meglio rimanere al “colpo di fulmine” che sta a capo delle nostre emozioni. E poi c’è il “colpo di frusta”, che è cosa afferente ai traumi del tratto cervicale e che meglio vien definito come il "colpo di frusta cervicale". Nulla da spartire col tema odierno. E c’è poi il “colpo di calore”, che ben lo si potrebbe, malauguratamente, riscontrare con le torride giornate di questa stagione. E del “colpo della strega”? Anch’esso una patologia, molto tenuta in considerazione – dai soliti furbi - nelle vicende assicurative a seguito di incidenti stradali. Una carta vincente, sempre! E poi il “colpo di mano”. Ma il pensiero non vi porti a pensare alla destrezza dei mariuoli di strada. Il vero “colpo di mano” è fatto da onorevoli, molto onorevoli, personaggi dell’antipolitica al potere. E non da oggi. Da sempre. Nei manuali del classico “colpo di mano” di luglio se ne ritrova uno celeberrimo. È che i colpi di mano si fanno sempre nelle torride giornate. Ci vuol sempre il clima giusto. La gente è stanca, non ne vuol sapere, è distratta, va ciabattando - clap, clap, clap -; sorbisce gelati e passeggia possibilmente a dorso nudo e con i pinocchietti di stagione. Ha ben altro a cui pensare. Ed è allora che i maestri onorevoli del “colpo di mano” tentano il “colpo” per l’appunto. Dicevo del celeberrimo “colpo di mano” di qualche anno addietro. Quell’anno – il 1994 - viene comunemente denominato della “discesa in campo”. Era per l’esattezza il 13 di luglio della “discesa in campo”. Il governo dell’innominabile aveva emanato un decreto legge a firma dell'allora Ministro della Giustizia (sic!) Alfredo Biondi che, per tale ragione, nei sopradetti manuali dei “colpi di mano”, viene ancora oggi ricordato come il "decreto Biondi", o meglio, a detta dei più, il decreto "salva-ladri". È che esso, il decreto “salva-ladri”, consentiva di affidare benevolmente agli arresti domiciliari tutti coloro che fossero incorsi, a loro insaputa, in crimini di corruzione. Si era appena usciti – o si tentava, inutilmente, d’uscirne - da “tangentopoli”. Mai sentito parlare di “tangentopoli”? Ma la cosa più strana – mica tanto, poi, nel bel paese del calcio e della canzonetta - fu che quel “colpo di mano” venne tentato nel giorno in cui si sarebbero svolte le semifinali della Coppa del Mondo e l'Italia avrebbe sconfitto la Bulgaria. E poi si dice che il calcio… All’apparire delle immagini dei politici, dei mariuoli e dei lestofanti accusati di corruzione che uscivano dal carcere per effetto di quel “colpo di mano” la gran parte dei magistrati del pool Mani Pulite insorse dichiarando che avrebbe rispettato sì le leggi dello Stato, incluso il così detto decreto “salva-ladri", ma che non avrebbe potuto lavorare in una situazione di conflitto tra il dovere e la propria coscienza chiedendo pertanto di essere assegnati ad altri incarichi. Ma avvenne il miracolo, e che miracolo, che non si è più ripetuto: il “popolo dei fax”, a migliaia e migliaia, svegliandosi come di soprassalto dal sopore indotto dalla calura di quel tempo, inondò le redazioni dei giornali e delle televisioni con le proprie proteste. Il “colpo di mano” venne in gran fretta ritirato. I turiferari del tempo parlarono di "malinteso", ed un certo Roberto Maroni – sempre come Ministro dell'Interno, quello che “al Nord la mafia non c’è” - sostenne che non aveva nemmeno avuto la possibilità di sapere del contenuto del tentato misfatto. Tanto per dovere di cronaca, il 28 di luglio, sempre della “discesa in campo”, venne arrestato Paolo Berlusconi, fratello dell’innominabile, con l'accusa di corruzione. Tanto per cambiare. E la Memoria collettiva dov’è? Ancora oggi sulla spiaggia. E ci risiamo. Cantava, soavemente e beatamente, un Riccardo Del Turco “luglio, col bene che ti voglio…”. La stagione perfetta per i “colpi di mano”, per l’appunto. Luglio 2013. Primo “colpo di mano”.  Da “Laide intese” di Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” del 25 di luglio – come se niente fosse accaduto 70 anni dopo il “Gran consiglio” -: (…). L’ultimo stupore dei tartufi riguarda la legge sul voto di scambio. Oggi il politico che baratta voti con la mafia in cambio di favori, appalti, assunzioni, fondi pubblici agli amici degli amici non commette reato. Perché questo scatti, occorre che i voti li paghi in denaro, cash: cosa che naturalmente non fa nessuno (l’unico precedente, secondo gli inquirenti, riguarda quel gran genio di Vittorio Cecchi Gori). I mafiosi sono ricchi, ma abbisognano di “altre utilità” (proprio quelle che una manina cancellò all’ultimo momento dal testo del ’92). Ora le “altre utilità” vengono inserite nella riforma frutto del compromesso Pd-Pdl-montiani sotto l’alto patrocinio del presidente ridens del Senato, Piero Grasso. Ma naturalmente è tutto finto. Fatto l’inganno, trovata la legge. L’escamotage che salverà gli scambisti ruota intorno ad altre tre soavi paroline: “consapevolmente”, “procacciamento” ed “erogazione”. La prima pretende che il giudice processi le prave intenzioni del politico votato dai mafiosi: il che, nel paese dell’“a mia insaputa”, è impossibile. Diranno tutti che non se n’erano accorti, o che la mafia li votava per simpatia. La seconda e la terza rendono insufficiente la promessa di voti dal mafioso al politico: bisognerà dimostrare che questi sono davvero arrivati (e come si fa? Si nascondono telecamere nei seggi?). Casomai, in queste strettoie, si riuscisse a far passare qualche politico colluso, ecco la soluzione finale: il riferimento al 416-bis, l’associazione mafiosa, per le modalità di procacciamento: non basta che il mafioso porti voti, occorre pure provare che l’ha fatto con metodi violenti e intimidatori. Se invece è stato gentile, con un’occhiata delle sue o un riferimento ai bei bambini dell’elettore, è tutto lecito. Cose che accadono quando si affida la legge sul voto di scambio ai politici che lo praticano da sempre o hanno addirittura fondato un partito col sostegno di Cosa Nostra. Ma in fondo è meglio così. In un paese dove a ogni indagine o arresto o processo su un qualunque politico delinquente scatta la rivolta dell’intero Parlamento e del 99 per cento della stampa contro la persecuzione, l’accanimento e i teoremi ai danni del Tortora reincarnato, inventare nuovi reati per i politici delinquenti non è solo difficile: è inutile. E dannoso. (…). Secondo “colpo di mano”. Da “Soldi ai partiti, la spugna del Pdl” di Liana Milella, sul quotidiano la Repubblica del 26 di luglio – il giorno dopo del “Gran consiglio” -: Via il carcere per punire il finanziamento illecito dei partiti. Via i quattro anni di pena. Solo "una sanzione amministrativa pecuniaria". Firmato, ovviamente, il Pdl. Seppellita per sempre Mani Pulite. Cancellate tutte le inchieste presenti e future. Una moratoria pazzesca. Incredibile solo a pensarla, proprio di questi tempi. A guardare il lungo catalogo delle leggi ad personam è il più clamoroso dei colpi di spugna. Una maxi depenalizzazione. Mai, in vent'anni di norme per demolire il codice penale, si era osato tanto. (…). …eccola qui la madre di tutti i possibili azzeramenti. Cinque righe in tutto. Un emendamento al disegno di legge del governo che cancella il finanziamento pubblico dei partiti e vorrebbe fissare le nuove regole per garantire "la trasparenza". (…). Ebbene, ecco comparire lì l'articolo 10-bis. (…). Dice l'emendamento: "All'articolo 7, terzo comma, le parole da "reclusione a triplo" sono sostituite dalle seguenti "sanzione amministrativa pecuniaria pari al triplo"". (…). Che succede con questo emendamento? Bisogna leggere il terzo comma dell'articolo 7 della legge 195. Essa impone che "chiunque corrisponde o riceve contributi senza che sia intervenuta la deliberazione dell'organo societario o senza che il contributo o il finanziamento siano stati regolarmente iscritti nel bilancio della società stessa, è punito, per ciò solo, con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e con la multa fino al triplo delle somme versate". Carcere più multa dunque. Doppia pena per chi viola una fondamentale regola di trasparenza, cioè dà i soldi di una società senza che di ciò resti traccia, con l'ovvia conseguenza che se la società ottiene poi dei vantaggi dal politico non si può stabilire la relazione. (…). Mani pulite fu costruita su tre reati, il falso in bilancio, la concussione, il finanziamento illecito. Il primo lo hanno acciaccato nel 2001 per salvare Berlusconi. Il secondo è finito vittima della legge sull'anti-corruzione. Adesso tocca al terzo. Se davvero dovesse cadere anche il finanziamento illecito nessuno deve più parlare di trasparenza e di lotta alla corruzione. Dicono che i molto onorevoli lavoreranno tutta l’estate per provvedere al “bene comune”. Quale? Speriamo, invece, che vadano presto in vacanza chiudendo il “parlatorio” – senza un recondito secondo senso -. Per il bene di tutti.

giovedì 25 luglio 2013

Eventi. 10 «Il più bel funerale del fascismo».



Ha dello straordinario il “racconto”, se così lo si potrebbe definire, che del 25 di luglio di settanta anni addietro ne ha fatto Jenner Meletti sul quotidiano la Repubblica del 22 Luglio 2013 col titolo, che sorprende anch’esso, “La pastasciutta della memoria”. Un titolo che potrebbe, nell’occasione, sembrare dissacrante, irriverente. Ma non lo è. Poiché quel Suo “racconto” è pregno di “Memoria” alta, altissima, di umanità piena, pienissima, che ci soccorrono nei tempi cupi che siamo chiamati a vivere, cupi questi sì e più di quelli, poiché essi sono senza visione di un futuro. Settanta anni addietro erano tempi di guerra, di fame, di morte, ma dal “racconto” è come se quegli anni cupi avessero una loro “leggerezza” che non la si ritrova nei giorni che viviamo. La “leggerezza” della speranza. È  a Giovanni Bigi che Jennerr Meletti affida la narrazione di quelle giornate straordinarie: «E io ero là, quella mattina. Ero ormai di casa. Agostino, uno dei fratelli, aveva sposato mia sorella Irnes. Un altro Cervi, Gelindo, aveva sposato una sorella di mio padre, Iolanda. Allora avevo 16 anni...». (…).«È passato uno in strada e si è messo a gridare: "l'è caschè, l'è caschè...". È caduto, è caduto. "Ma chi è casché?", chi è caduto? "Al Duce, i l'han mess in galera". È il Duce, l'hanno messo in carcere ». L'intera famiglia si riunisce al fresco del portico. Ci sono Alcide e la moglie Genoeffa, i figli Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo. È a questo punto che vien fuori la straordinarietà di quel tempo, di quella gente. E sì che la guerra e la tirannide nazi-fascista avrebbero dovuto fiaccare quei cuori e quelle menti. Si è in quel di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, terra di lavoro e di cooperazione. Terra di “sentimenti” alti e forti di umanità che la bruttura di quei tempi non era riuscita a cancellare. Continua il Bigi per la penna – oggigiorno il computer – di Jenner Meletti: «L'idea della pastasciutta — (…) — è venuta ad Aldo e gli altri si sono detti subito d'accordo. "Non possiamo fare una manifestazione perché se il Duce è caduto i fascisti e i tedeschi sono ancora qui e Badoglio ha detto che la guerra continua. Ma il popolo ha fame e allora gli diamo da mangiare. Non credo che avremo problemi"». L'organizzazione viene affidata a Gelindo. «È stato lui ad andare dal fornaio di case Cocconi per ordinargli la pasta. La farina? Due quintali li hanno messi i Cervi e mezzo quintale noi Bigi, che come i Cervi eravamo affittuari, più ricchi dei mezzadri. Certo, il grano si doveva portare all'ammasso ma noi contadini eravamo furbi. Prima dell'arrivo della trebbiatrice — sorvegliata dai militi fascisti — noi battevamo i covoni per terra, così recuperavamo parte del frumento. Nelle nostre case non si pativa la fame». Il fornaio chiede l'aiuto delle donne di case Cocconi per impastare la farina. «Gelindo va poi alla latteria sociale Centro Caprara per chiedere al casaro di cuocere la pasta nelle grandi caldaie che servono a preparare il parmigiano reggiano. Anche il casaro chiede l'aiuto delle donne del paese per grattugiare il formaggio che sarà il condimento della pasta, assieme al burro. Non c'erano le grattugie elettriche, allora. Si faceva tutto a mano ». (…). «E io, Bigi Giovanni, ho avuto un incarico importante: con il mio carro e il mio cavallo ho portato i bidoni pieni di pasta fino alla piazza grande di Campegine. Li ho caricati al caseificio alle ore 11». La voce si sparge, dalle case di campagna braccianti e contadini escono con i piatti in mano, o anche con le zuppiere e si mettono dietro al carro come in processione. (…). «Sul carro con me — racconta Giovanni Bigi — c'erano quattro ragazze. Ricordo i nomi solo di tre di loro: Eletta Bigi che era mia sorella, Amedea Barani e Maria Zaniboni. Diventeranno tutte staffette partigiane. Alle 13 siamo in piazza e le ragazze cominciano a riempire i piatti. Arriva subito il maresciallo dei carabinieri che parla con Gelindo e dice: questa è una manifestazione e sapete bene che gli assembramenti con più di tre persone sono proibiti. "No — gli risponde Gelindo — qui c'è soltanto gente che ha fame. Maresciallo, prenda un piatto di pasta e torni in caserma. All'ordine pubblico ci pensiamo noi, non succederà niente"». In piazza c'erano anche gli altri fratelli Cervi. Se il “racconto” di Jenner Meletti non fosse impresso sulla vile carta stampata di un quotidiano ma fosse impresso sulla celluloide – come nei tempi andati del cinema prima che il digitale la mandasse in pensione, alla celluloide intendo dire – assisteremmo alla scena clou di quel film. In essa si coglierebbe la straordinarietà di quei tempi e di quegli uomini e di quelle donne nei quali il nazi-fascismo non era riuscito, con tutto il terrore disseminato a piene mani, a spegnere la fiammella della umanità, dell’altruismo e di quel sentire che avrebbe poi dato sostegno morale alla lotta partigiana che da quel 25 di luglio dell’anno 1943 avrebbe devastato gran parte del bel paese. E quella generosità e quella umanità le ricorda, forse con grandissimo orgoglio, la voce narrante di Giovanni Bigi: «Uno si avvicina ad Antenore e gli dice: c'è anche un fascista che aspetta la pastasciutta, ed è in camicia nera. Antenore risponde: se è qui, vuol dire che ha fame. Poi gli va vicino e gli dice: certo, la camicia nera te la potevi togliere. E lui: ho solo questa. E Antenore, pronto: vedi come ti ha ridotto il fascismo? Non hai nemmeno due camicie. Io ero lì, al fianco di Antenore. E per la prima volta in vita mia vidi spuntare tre o quattro cartelli, con scritto "Abbasso il fascismo", "Viva la Pace"». Sono ormai vent'anni che, nell'aia e nei prati di casa Cervi, il 25 luglio si prepara la «pastasciutta antifascista». (…). «Io, quel pomeriggio (…), rimessi i bidoni vuoti sul carro, credevo che tutto fosse finito. E invece...». E poi la tragedia dei Cervi ad opera di un mostro morente. Scrive a conclusione del Suo “racconto” Jenner Meletti: All'alba del 25 novembre 1943 la casa dei Cervi viene circondata dai militi della Guardia nazionale repubblicana. Alcide ed i suoi figli, assieme al partigiano Quarto Camurri, vengono portati nel carcere dei Servi a Reggio Emilia. I sette fratelli, assieme a Quarto Camurri, vengono fucilati alle 6,30 del 28 dicembre al Poligono di tiro della città. Il 15 novembre 1944 la loro madre, Genoeffa Cocconi, muore di crepacuore. «Oppressa dal dolore», scrissero sui manifesti funebri. Riporta Jenner Meletti quel che ne scrisse papà Cervi a proposito di quella “pastasciutta” collettiva: «È stato — (…) — il più bel funerale del fascismo». E poi fu la guerra civile, quella vera, non quella inventata (o sperata) per ottenere individuali salvacondotti. Dopo quel 25 di luglio dell’anno 1943 di salvacondotti non ce ne furono per nessuno. Si morì, anche, per un futuro che fosse diverso.

mercoledì 24 luglio 2013

Lamemoriadeigiornipassati. 12 “La pastasciutta in bianco del 25 luglio”.



Domani è il 25 di luglio. 70 anni dopo il 25 di luglio dell’anno 1943, quello del “Gran Consiglio”. Rossella Cantoni, presidente dell’”Istituto Alcide Cervi”, lo ricordava così, quel 25 di luglio, sul quotidiano l’Unità di sabato 24 di luglio dell’anno 2010 – “La pastasciutta in bianco del 25 luglio” -: Il 25 luglio del 1943, il Gran consiglio del Fascismo vota la sfiducia a Benito Mussolini e il re lo fa arrestare. Cade il regime. A Campegine, in provincia di Reggio Emilia, si fa festa. Una famiglia di contadini un po’ particolari per l'ingegno e la passione che mettono nel lavorare la terra e nell'opporsi alla dittatura, fa il più bel funerale del Fascismo, per dirla con le loro parole. Decide di offrire al paese un piatto di pasta asciutta. Sono i sette fratelli Cervi con il padre Alcide, la madre Genoeffa e tante altre famiglie della zona. Tempi di fame e povertà, anche nella bassa reggiana, c'è la guerra combattuta e c'è la voglia di sperare. I Cervi ricreano la piazza, la riprendono dopo anni di adunate pilotate, offrendo pastasciutta a tutti i compaesani, una pasta frutto della farina e delle braccia di più persone che non avevano molto. Al massimo potevano fare una pasta in bianco, con burro e parmigiano, ma quella la fecero. Il 25 luglio è una data storicamente nodale, analizzata da storici e giornalisti nella sua ufficialità, ma troppo spesso si è tralasciato di raccontare la gioia che investì la popolazione, il carattere pacifico delle manifestazioni spontanee che si improvvisarono, espressione di un antifascismo diffuso, spesso nemmeno consapevole, che voleva la fine della guerra, della fame e della paura. La Liberazione arriverà solo venti mesi dopo e costerà ancora tanta sofferenza, ma quel 25 luglio il primo istinto fu di festeggiare insieme. Quello spirito, quell'ottimismo, rivive ancora nella casa che fu dei Fratelli Cervi, oggi Museo, ogni 25 luglio. (…). Non bisogna cancellare quella Memoria. È dalla Memoria che si trae la linfa necessaria alla vita futura. Ha scritto Massimo Recalcati, psicoterapeuta lacaniano, sul quotidiano la Repubblica di ieri, 23 di luglio – “Rimozione e pacificazione” -: In psicoanalisi esiste una legge del funzionamento mentale che vale la pena oggi ricordare perché si presta a leggere anche i fenomeni della vita collettiva: quello che si vuole cancellare dalla memoria – (…) – ritorna sempre nella realtà e ha spesso la forma dell’incubo. Per generare cambiamento autentico, nella vita individuale come in quella collettiva, è necessaria innanzitutto la memoria della nostra provenienza.  Non è un caso che tutti i tiranni tendano a cancellare il rapporto con la memoria e a falsificare i libri di storia. In 1984 il Grande Fratello orwelliano rende come prima cosa impossibile il pensiero storico perché sa che quel pensiero è sempre pensiero critico, pensiero che sa fare obiezione alla falsificazione. (…). Salviamo la Memoria. Non “scarnifichiamo” il pensiero.

lunedì 22 luglio 2013

Eventi. 9 “Uno strano funerale”.



Dobbiamo – devo – alla passione, alla intelligenza ed alla tenacia dell’instancabile Franca Sinagra Brisca il riemergere, dalle fitte nebbie che avvolgono spesso la memoria storica dei popoli, della figura nobile ed altissima del perseguitato politico che ha nome – poiché nella “memoria” si continua a “vivere” - Francesco Lo Sardo – Naso, Sicilia, il 22 di maggio dell’anno 1871; Napoli, il 30 di maggio dell’anno 1931 -. Dobbiamo – devo – a Franca Sinagra Brisca aver potuto partecipare anni addietro, in quel di C***, ad un convegno celebrativo della memoria di quel grande martire e precursore della Resistenza, memoria andata perduta in un mondo affetto da “cecità” ed indifferenza. Riporta Mimma Paulesu Quercioli, nel volume edito da Feltrinelli (1977) “Gramsci vivo nelle testimonianze dei suoi contemporanei”, una frase di quel grande - che al tempo scontava la pena nel carcere di Turi, in compagnia di quell’altro grande che è stato Antonio Gramsci – in risposta a coloro che lo sollecitavano ad inoltrare domanda di grazia : « Hanno voluto la carne e si prenderanno anche le ossa. Io non firmo». Ed oggi, un dono inatteso pervenutomi da Franca Sinagra Brisca: il Suo straordinario racconto “Uno strano funerale”. Un dono inatteso ed un privilegio allo stesso tempo, potendone disporre, su gentile concessione dell’Autrice, su questo blog. Fu al termine di quel convegno che, avvicinato da una signora piacente e distinta, ebbi a sentire commenti non proprio teneri sul “colore” politico dell’avvenimento. Ebbi a rispondere, alla distinta, piacente signora, come ai tempi cupi di Francesco Lo Sardo anche un altro personaggio di una grande famiglia liberale avesse scelto i “comunisti” di allora per combattere la tirannide nera: Giorgio Amendola, figlio del liberale Giovanni Amendola. È che i “comunisti” del tempo erano tra i pochi a combattere senza tregua la tirannide fascista. A giorni è il 25 di luglio. 70 anni dal 25 di luglio del “Gran consiglio”. Finiva la rappresentazione in cartapesta del fascismo. Si dava inizio ad una indimenticata tragedia storica e sociale. Ha scritto su la Repubblica di oggi – “La pastasciutta della memoria” – Jenner Meletti su quel 25 di luglio di 70 anni fa: “Alcide Cervi e i suoi sette figli, quella sera del 25 luglio 1943, non avevano ascoltato la radio. Dovevano alzarsi presto, per portare a casa il secondo taglio di fieno. Per questo alle 23,15 — quando ci fu il grande annuncio — erano già a letto. «Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza Benito Mussolini... ». La notizia arrivò il giorno dopo, nell'aia della famiglia Cervi”. Il racconto, ora, di Franca Sinagra Brisca.

All’attracco del porto ferroviario di Messina un numero esiguo di persone vestite di nero, molto dignitose e quasi eleganti, puntavano gli occhi all’acqua livida dello Stretto, corazza metallica cosparsa di lame d’acciaio luccicanti, il loro sguardo vitreo coglieva, oltre la grande pancia galleggiante del traghetto bianco in lento avvicinamento, altre squame d’opaco biancore sull’altra sponda, le case di Villa San Giovanni avvolte nell’aria tersa del mattino. Tre squilli d’avviso per l’approdo imminente erano già stati lanciati insieme al fumo della ciminiera, gonfiatosi in uno sbuffo. Erette sulla schiena, alte e affusolate, battute dal vento instancabile di quel corridoio marino naturale, quelle sagome sarebbero potute sembrare pali vestiti da umani, se non che c’era là in mezzo uno sventolio nero di gonna, a indicare che una donna era sicuramente fra loro, Teresina Lo Sardo, da troppi giorni vedova priva di cadavere. Rimasero immobili quando lo scafo beccheggiando imboccò l’invaso, nonostante avessero sentito riflesso nelle proprie ossa lo squassare del cadavere amato che fra poco sarebbe stato vomitato fuori bordo e restituito a loro, che l’adoravano d’immenso pianto e amore. Non potevano immaginare, per consolazione,  che la storia avrebbe risollevato di lì a una decina d’anni la loro umanità ferita a morte, che questo sarebbe avvenuto nella storia d’Italia per mano di altri, della Resistenza, loro già messi fuori gioco in quel punto della vita. Non potevano prevedere cosa riservasse il futuro, conoscevano soltanto la crudeltà disumana di una popolazione irretita nei peggiori dei comportamenti  che un amico professore, di cui s’erano perse le tracce, aveva definito con frase latina “homo homini lupus”. Parve ai soli occhi di Teresa, ma ne ebbe la sicurezza interiore, il volto di quell’amico essere lo stesso apparso un attimo solamente affacciarsi alla ringhiera della nave lasciando cadere in mare, con statuario gesto di accompagnamento, un garofano rosso*.  Sotto la tesa nera a Teresa sembrò d’aver riconosciuto una certa ampia fronte scendere sul profilo del naso aguzzo, nel momento in cui l’apparizione aveva sollevato il cappello come a ripararsi da una ventata inesistente che glielo avrebbe scalzato, proprio nel punto in cui la nave urtò in entrata  contro i respingenti e i parabordi dell’invaso. Quella visione arrivò a Teresa come una carezza, dedusse che il suo uomo era stato scortato da un pari, l’amico professore Concetto, e avvertito il pericolo incombente sul clandestino a bordo, bloccò perfino il pensiero dal proferirne il cognome, mentre ancora un assalto del cuore le ricordò la sua tacita presenza nella dovizia di libri per  Francesco che riusciva a fargli pervenire direttamente dall’editore. Fu strazio interiore il fragore dell’uscita del treno merci dalla cerniera di poppa, mandibola spalancata della nave, con stridio si ferraglia e scossoni sui binari. Poi senza incertezze avvenne lo spostamento, compatto a passo svelto, del gruppo dei personaggi in nero lungo il marciapiede che dall’attracco porta in linea dritta al primo binario della stazione; la macchia nera era adesso contrassegnata da un punto centrale rosso vivo trattenuto al petto da Teresa, il suo mazzo di garofani, ultimo contatto di sé col suo uomo. Dal portellone scorrevole del vagone merci quattro di loro, pieni di asciutta commozione, da due piantoni militari ricevettero sulle spalle la reliquia leggera che c’era nella bara,  curvi sotto il peso dell’ingiustizia e già esausti per l’attesa. “Mio marito è stato ucciso consentite che almeno mi sia restituito il cadavere” aveva telegrafato a Mussolini la moglie Teresa Fazio in Lo Sardo, quella donna magra che lì pareva di vetro tagliente tanto era rigido lo sforzo di non urlare e antica l’abitudine  temprata a non reagire per non soddisfare il piacere sadico di chi la morte aveva preso a usarla per dileggio. Gli uomini s’erano scoperti il capo e accennato un inchino, quindi si avviarono muti all’uscita dopo che la signora Teresa ebbe deposto sulla bara un bacio portato dalla bocca sulla punta delle dita insieme al mazzo di garofani rossi. Fuori li attendeva un semplice carro funebre a un tiro, nerissimi il carro e il cavallo. Nel rapporto della questura del 6 giugno 1931, redatto nelle prime ore del pomeriggio, si legge: - Treno ore 6.15 giusta intesa questura Napoli è qui arrivata salma condannato politico Lo Sardo Francesco che proseguita immediatamente per Gran Camposanto ove in atto avviene tumulazione avvenuta senza alcuna pompa e feretro est proseguito cimitero seguito appena qualche congiunto e per itinerario prescritto Questura. Nessun incidente. Personale servizio Polizia ha proceduto fermo sei comunisti sorpresi isolatamente lungo percorso con probabile intenzione seguire carro funebre - Una strana cassa di legno chiaro, forse di comune pioppo con evidenti listelli assemblati alla meno peggio, camminava a passo normale appena oltre il marciapiede sulle gambe lunghe di quattro uomini in nero con cappello e, a seguire,  quella donna  con veletta nera le cui mani, che prima reggevano i fiori, erano ora intrecciate saldamente alla cintura, la testa appena piegata a sinistra e ormai bianchi i capelli, sostenuta sottobraccio sicuramente da un parente stretto, uno dei suoi fratelli il maresciallo Salvatore, i cognati ingegnere Giovannino e Giuseppe, il caro nipote avvocato Ciccino, i nipoti dottor Salvatore e un giovane, forse Vincenzo. L’estrema austerità nel silenzio totale dell’ora mattutina rosata e l’incedere cadenzato, conferivano alla scena un carattere di irrealistica atroce solennità. Fuori dalla tettoia della stazione nella piazza inondata di luce, il legno fu accolto nella pancia del carro funebre tirato come d’uso da un cavallo in gualdrappa nera, e una nuova macchia nera semovente, ma sbriciolata e complessa, si mosse verso il Gran Camposanto fra due file di poliziotti neri, obbligata a un percorso a gimcana per vie secondarie.  Lungo la strada lo sbattere di un’imposta persiana, aperta da una donna prosperosa che restò interdetta a guardare, nell’ immobilità istantanea ruppe il silenzio teso e sembrò commentare: “Madre di Dio,  e che c’è il pericolo che il morto scappi o è l’imbroglio di una carrozza piena di dinamite?”. Altri tizi con manganello in camicia nera, a cui lo schermo dei muri a quell’ora  ricusava al sole di proiettare l’ombra sul basolato, e altri in borghese ma simili nel comportamento a scatti e nell’occhiuto sguardo controllore, erano sparsi tutt’intorno per un centinaio di metri. Sulla via deserta sbucavano dalle  traverse, qua e là alla spicciolata, uomini con le mascelle serrate e i pugni stretti in tasca, qualcuno riconoscibile per il bavero della giacchetta alzato fin sotto la coppola, che dava subito una occhiata finta indifferente alla bara, per proseguire a torto con lo stesso passo del funerale, ma senza affiancarsi, e qualcun altro commise l’ingenuità di scoprirsi il capo, confidando nell’ovvio atto di civiltà per l’usanza funebre. Era stata vietata la partecipazione a quel funerale e sapevano i rischi infelici della disobbedienza. Quello era il feretro di un gran politico, nientemeno che il siciliano Francesco Lo Sardo deputato al Parlamento Regio a Roma, fatto morire di stenti in carcere, secondo dopo il primo assassinio impunito del collega Matteotti. La presenza furtiva di quegli avventori durava poco, perché scomparivano improvvisamente in una traversa o in un portone spalancato a bella posta lungo il percorso, atterrati da una manganellata o costretti dal perentorio ordine fascista di chi s’era accostato proditoriamente, per fargli sentire la bocca d’una pistola puntata al petto o alla schiena.  Pur avvertiti del divieto categorico e consci dell’inevitabile pericolo, alcuni antichi compagni di strada e di lotta di Francesco vollero testimoniare  per l’ultima volta  la vicinanza a quel relitto, che ancora in quelle condizioni continuava a rappresentare un grande significato politico e una scelta di vita morale. “Il coraggio e la fede, in questi tempi, sono la virtù di pochi. Amo essere tra questi pochi” aveva scritto dal carcere. Rappresentava un baluardo dell’antifascismo, che i mandanti dell’assassinio, incapaci di distruggerne l’eredità immateriale, intesero occultare passando sotto silenzio per cinque anni, prima il sequestro immotivato e poi il mortale abbandono carcerario,  ora incarogniti nel divieto della cerimonia funebre. Ma si può chiamare funerale questo  sparuto numero di nerovestiti attorno a una cassa senza corone né suono di campane, con un semplice mazzo di fiori comuni evidentemente raccolti nel giardino di casa? Quale sentenza poteva non risparmiare i morti e infierire su quel deputato facendone un morto così derelitto anche nelle esequie?  Ad ogni incrocio sostavano altre guardie antirapina del feretro, che non doveva essere indagato né sulle cause né sul giorno del decesso, tanto meno rapito e sequestrato da una folla di elettori inferociti, contadini e operai per lo più, per offrirgli esequie più onorevoli. Era in campo la certezza che qualsiasi rito funebre sarebbe diventato una manifestazione di popolo rivelatrice di insofferenza politica e di ribellione, ma era in campo anche la disumanità dittatoriale che da lì a qualche anno darà prova della sua ferocia nelle deportazioni e nell’uso delle camere a gas per lo sterminio organizzato, nella cui speciale attenzione era compresa la razza ribelle e idealista dei comunisti. Lo scalpiccio martellante del cavallo sull’asfalto si sentì lungo tutto il tracciato contorto per vie secondarie, cosparse di sporcizia a Messina più di quanto non siano solitamente nelle città portuali; nel deserto umano, raggiunsero l’entrata nel Gran Camposanto le stesse sole persone che c’erano all’imbarcadero. Per l’occasione speciale in impeccabile camicia nera, il custode del cimitero li aspettava a pochi passi a sinistra del cancello con due laceri aiutanti, la tomba di famiglia interrata già aperta e il loculo in vista: avrebbe controllato la tumulazione con apposizione di lastra in segno di “ capitolo chiuso per sempre”. Teresa Fazio Lo Sardo sarebbe tornata a vivere nella sua casa circondata da oggetti che le avrebbero ricordato quel marito tanto amato e tanto sofferto, questa volta  definitivamente sola ad aspettare l’evolversi degli eventi politici, un panta rei che conosceva bene. Aveva vissuto l’eccezionalità di due  funerali irregolari perché irrituali, eventi ambedue che, con l’aggravante dell’ingiustizia da riscattare, renderanno nella madre e nella sposa quelle ferite non rimarginabili. La sua vita travagliata s’era svolta  dai bucolici pascoli dell’infanzia sui Nebrodi alla vecchiaia inconsolabile funestata due volte da dolore amarissimo, prima della perdita del figlio Ciccinuzzo nel terremoto del 1908 e ora del marito Francesco nella barbarie delle carceri fasciste.

*Nota dell’Autrice. Il riferimento alla presenza di Concetto Marchesi riprende la leggenda del garofano da lui gettato nello Stretto al passaggio del feretro, secondo una testimonianza orale raccolta nel 1982 da S. Saglimbeni .

martedì 16 luglio 2013

Doveravatetutti. 9 “La politica del cinepanettone”.



Scriveva Nadia Urbinati sul quotidiano la Repubblica del 16 di luglio dell’anno 2010 – “I tre governi del cavaliere” -: Se il governo degli affari privati è invisibile perché segreto, questo governo dell’immaginario mediatico è una costruzione per il pubblico, pensata e messa in scena per un destinatario che deve essere e restare passivo, un’audience priva di argomenti che servano a formulare giudizi valutativi; un pubblico che è anzi fabbricato dal sistema mediatico e da chi dovrebbe essere oggetto di monitoraggio affinché non veda, non si renda conto, non sappia che dietro all’immagine propagandata o non c’è nulla o c’è ciò che non si deve vedere. È l’allarme lanciato in quel tempo, che appare tanto remoto, dalla insigne studiosa su quella che sarebbe stata “una generazione di padri puerili” della quale ha parlato Curzio Maltese. Questo post penso che possa fare il paio, integrandolo ed approfondendone la tematica, con il post che lo ha preceduto. Continua Nadia Urbinati: Il governo creato dai media è astratto, irreale: uno spettacolo che va in onda tutti i giorni, alcune volte al giorno da diversi mesi e mette in scena la favola del fare e dell’ottimismo, la rassicurazione che la corruzione lambisce solo pochi, e poi la storia delle cospirazioni ordite da poteri indiscreti come i giornali o eversivi come i magistrati. Questo governo dell’immaginario mediatico non corrisponde a un governo esistente ma copre quello che il governo esistente fa, cosicché nessuno alla fine sa da chi é governato. Perché di questi due governi, uno segreto e uno immaginario - il primo tragicamente reale ma nascosto, il secondo visibile ma irreale - nessuno si basa sulla fiducia dei cittadini: il primo per l’ovvia ragione che vive nel sottosuolo e nessuno dei suoi atti deve trapelare; il secondo perché è un’invenzione commerciale fatta ad arte da chi governa con l’esito che i cittadini non dispongono di una realtà di riferimento autonoma alla quale rivolgersi per cercare conferme o smentite a quello che si vede e si sente. L’Italia ha due governi molto potenti, gestiti e organizzati in modo da evitare il giudizio, della legge e dell’opinione pubblica. È questa segretezza che li rende a tutti gli effetti una negazione della democrazia, anche se sono il prodotto di una maggioranza che governa con il consenso elettorale. È mancato, bisogna pur dirlo, nel bel paese un punto di riferimento credibile che smascherasse la tragica messa in scena di un governo d’improvvisatori ed illusionisti. E questo sarebbe stato il compito di una opposizione che ne fosse all’altezza. Così non è stato. E così l’”antipolitica”, che ha accomunato i reggitori temporanei della cosa pubblica a chi avrebbe dovuto smascherarne l’inanità ed il malaffare, ha scacciato la politica del bene comune, la politica buona. Di quel che ne è rimasto raccogliamo oggigiorno amaramente i frutti acerbi. È mancato il riferimento certo, credibile. Un disastro. Da ciò ne è derivato quella condizione che Curzio Maltese, sempre sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 14 di gennaio dell’anno 2011 definiva: “La politica italiana? Un cinepanettone lungo trent’anni”. Scriveva in quell’occasione l’illustre opinionista: La parola «comunisti», usata come insulto, è tramontata in tutto l’Occidente, tranne che in una nazione, l’Italia. Non è soltanto Berlusconi a riesumarla ogni volta da quella che Carlo Marx avrebbe chiamato «spazzatura della storia». La senti di continuo nelle conversazioni d’ogni giorno, al bar o al mercato. Berlusconi in fondo non fa altro che usare un sentimento diffuso. Non la paura del comunismo, che non c’è più, ma al contrario la nostalgia. Meglio, la nostalgia del Muro. All’ombra del Muro, nel mondo diviso in due, l’Italia era un Paese importante, una frontiera decisiva. Anche un Paese ricco, in progresso, vitale. Nel mondo che è arrivato dopo la caduta del Muro e la globalizzazione, siamo una nazione sempre più marginale, in declino. Siamo una società che invecchia e dunque soffre di nostalgia. L’utopia di Berlusconi, la ragione della sua popolarità, risiede in questo tentativo di fermare l’orologio della storia ai favolosi anni Ottanta, interpretando così un bisogno profondo di milioni d’italiani. È anni Ottanta la televisione, la nostra industria, il nostro dibattito pubblico. Un infinito cinepanettone. (…). Quando Berlusconi parla di comunismo, più che una battaglia ideologica, evoca un sentimento di rimpianto per il bel tempo andato. Quando il mondo era più semplice da capire. Il suo stesso orizzonte internazionale si limita al campo della nostalgia. Gli ex comunisti Putin e Lukashenko, il vecchio dittatore Gheddafi. Prima anche Bush junior, nel suo tentativo di rifare Ronald Reagan vent’anni dopo. Certo, la finzione è aiutata dal fatto di avere dall’altra parte gli stessi dirigenti del Pci di vent’anni fa. La nostalgia è diffusa anche a sinistra. Un rinnovamento a sinistra farebbe apparire di colpo il progetto berlusconiano in tutta la sua decrepitezza. Ma la nostalgia si respira un po’ ovunque, nella nomenclatura italiana. Il sogno di Marchionne non è forse di rifare una bella marcia dei quarantamila? Una borghesia senza rivoluzione, la nostra, incapace di esprimere valori positivi, aveva trovato l’unico collante nell’anticomunismo e resiste da vent’anni all’idea che quella guerra sia finita. Si andrà avanti, anzi indietro, ancora per un po’. Poi un giorno la gente di colpo non andrà più a vedere i cinepattoni. Sarà così? Chi lo sa, forse. Poiché, forse, la gente se ne sarà nutrita – di “cinepanettoni” - oltre ogni ragionevole misura. Ma non c’è molto da sperare: al cattivo gusto ed alle abbuffate non si pongono limiti di sorta. E quello di Curzio Maltese voleva essere un auspicio o il verdetto scaturito da un’analisi dell’evolversi di una incredibile, a-storica, fallimentare – che accomuna tutte le forze “antipolitiche” del bel paese - condizione della politica del bel paese? A tutt’oggi penso che possa valere la prima delle ipotesi. Coloro che hanno concorso alla produzione dei “cinepanettoni” ed alla loro inarrestabile distribuzione sono sempre lì, con qualche scossone in più e tanti, tantissimi rinnovati mugugni collettivi, ma che non trovano la forza per porre la parola “fine” ad un’indegna, tristissima rappresentazione.

lunedì 15 luglio 2013

Doveravatetutti. 8 “Una generazione di padri puerili”.



Scrive Curzio Maltese sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 12 di luglio – “La lenta caduta del leader che lascia dietro di sé un Paese alla bancarotta” -: Una generazione di padri puerili dovrà spiegare a una generazione di figli resa adulta dalla crisi le strane ragioni per cui un Paese ricco di talenti e di risorse si sia ridotto a un passo dalla bancarotta per inseguire i sogni ignoranti di un imbonitore televisivo, di un peracottaro nemmeno così affascinante e geniale come l’hanno dipinto servi e nemici. Una nazione non soltanto rimbecillita, ma torvamente rimbambita. Attraverso il quotidiano esercizio di un astio derisorio nei confronti di ogni forma di intelligenza, eccellenza, rigore morale. Il peggio non sono state una politica economica inesistente e una politica estera da buffoni, ma la sistematica svalutazione di ogni valore di civiltà e cultura. Per vent’anni si è raccontato ai giovani che non vale la pena di studiare e migliorarsi perché altre erano le strade verso il successo. Lo scandalo vero di Berlusconi non sono Ruby e le altre ragazzine alle cene di Arcore, ma la Gelmini ministro dell’Istruzione (e del tunnel scavato dalla Svizzera al Gran Sasso n.d.r.). Il risultato di questa egemonia anti culturale è devastante. Se proviamo a far di conto la domanda del Nostro è rivolta a tutti quei padri che al tempo della sciagurata “discesa in campo” avevano figli e figlie, oggi trentenni o ancor di più avanti negli anni, che oggigiorno pagano le conseguenze di quell’obnubilamento delle coscienze e delle menti. “Una generazione di padri puerili” li definisce l’illustre opinionista. E non sbaglia. Ma anche prima il Nostro non mancava di segnalare, a chi avesse avuto voglia e prontezza per raccogliere le segnalazioni che da tante parti pur provenivano, la pessima piega che la mala gestione della cosa pubblica aveva assunto nel bel paese. Voce nel deserto. Ecco perché il “doveravatetutti” per quei padri dovrebbe risuonare alto e forte. Le cose nella Storia non accadono per caso. Esse si costruiscono lentamente nel bene o nel male. Non vale poi dolersene come se quelle cose accadute ci siano piovute da un cielo lontano ed ostile. Non è giusto. È la solita operazione di sottrazione alle proprie responsabilità. Una pratica diffusa assai. Oggigiorno si scopre come quelle responsabilità siano state inesistenti a causa di “una generazione di padri puerili” persa, quella sì, dietro l’incantatore di turno. Ho ritrovato tra i miei ritagli un altro pezzo di Curzio Maltese. Esso risale al 28 di gennaio dell’anno 2011, dieci mesi prima che l’egoarca di Arcore venisse sfiduciato e mandato via dai mercati. Dai mercati. A quel tempo Curzio Maltese titolava il Suo pezzo, sempre per il settimanale “il Venerdì di Repubblica”, “Qui finisce l’avventura dell’«AlbertoSordi» made in Brianza”. Ed in quel titolo si formulava, con due anni d’anticipo, l’auspicio che quella avventura giungesse al suo termine. Non è stato così. Oggigiorno ci si ritrova con “l’«AlbertoSordi» made in Brianza” a fare il governassimo della “larghe intese”. Quali “larghe intese”? Su nulla. Se non nel rimandare le decisioni ad un domani che sarà sempre un altro giorno. Forse perso. Ma i figli di quei “padri puerili” ne pagano amaramente le conseguenze. Scriveva allora Curzio Maltese: La parola chiave per capire il quasi ventennio berlusconiano è nostalgia. Il contrario della sbandierata modernità. Era ed è una vecchia Italia quella che si è nascosta per diciassette anni dietro la maschera e la bandiera di Berlusconi. Vecchio, a sua volta, fin dalla prima apparizione. Il messaggio della discesa in campo, lui col doppiopetto e gli slogan degli anni Cinquanta, l’anticomunismo, il «ghe pensi mi», «mi sono fatto da solo», «la trincea del lavoro», il boom economico. Vecchio nel modo di parlare, di essere, di vestire, di vivere e divertirsi, di fare televisione. Con tutti i vizi di una generazione cresciuta negli anni Cinquanta, la misoginia camuffata da dongiovannismo, il chiagni e fotti, il fiero disprezzo per la cultura, l’assenza di autentico umorismo dei barzellettieri, un’autoindulgenza spinta fino ai deliri del narcisismo assoluto. Anche i pregi, certo: la tenacia, l’incredibile capacità di lavoro, la combattività, il vitalismo. Un albertosordi della Brianza, assai poco innovativo come imprenditore, rispetto a tanti colleghi del Nord. Ma tanto più sveglio nel profittare, come avrebbe detto Gadda, del corto circuito politico-professionale. Naturalmente, con la retorica qualunquista dell’antipotere, di quello fuori dai giri. Nel privato, un ometto ricchissimo, con la villona alle spalle e la moglie bella, le battute da capufficio bauscia, il rimpianto per i bei bordelli d’una volta, il gusto per la finta canzone napoletana e la greve imitazione degli chansonnier francesi. Letture zero, libri intonsi da arredamento. In breve, l’incarnazione del sogno di molti connazionali. Fondò il «moderno» impero televisivo portando a Canale 5 Mike Bongiorno, pensionato Rai, sdoganando le maggiorate, serie di telefilm dismesse dagli americani, un catafalco dei mezzibusti come Emilio Fede. Nel momento più critico di Tangentopoli, alla vigilia di una svolta possibile nel Paese e inevitabile nel resto del mondo dopo la caduta del Muro, Berlusconi ha intercettato la nostalgia della maggioranza. Nostalgia di tutto, degli anni Ottanta appena finiti, del boom economico, del comunismo e dell’anticomunismo e sempre del fascismo, di un’Italia da 1948, di un’America e di mondo che non sarebbero mai più stati come una volta. Nella ferma determinazione a ignorare i temi veri della modernità, le nuove competizioni, l’immigrazione di massa, le rivoluzioni tecnologiche, i mutamenti sociali. Per sua fortuna, i capi avversari erano un gruppo di bolsi ex dirigenti del Pci. Ha foderato questa nostalgia con una modernità di facciata e gli hanno perdonato tutto. La bolla di sapone che ora esplode, rivelando il vuoto. Ecco quale è stato il miracolo del Cavaliere di Arcore: fermare il tempo a quella “vecchia Italia” che non esisteva più e che non poteva capire i processi planetari che andavano ad imporsi. Un vecchio dentro e fuori che, grazie all’ignavia di quei “padri puerili” catturati dalle sue fallimentari invenzioni, ha potuto determinare il destino di un intero Paese. Ma la Storia non fa sconti a nessuno, né tanto meno a chi ha voluto crogiolarsi nelle illusioni proprie di una condizione puerile. Il conto è questo oggigiorno, salato ed amarissimo. Il grosso guaio è che in quella “bolla di sapone” della quale parla Curzio Maltese  ci siamo colpevolmente ricacciati. Ed oggi non ci sono più scusanti che tengano. Per la puerile disattenzione. Ed i “padri puerili” stanno sempre lì, invecchiati e imbolsiti a piangere su un destino cinico e baro. “Padri puerili” allora, “padri puerili” oggi. Senza nerbo. Senza idee. La “scarnificazione” del pensiero è avvenuta. E come!

sabato 13 luglio 2013

Sfogliature. 19 “Il crimine dell’indifferenza”.



Scriveva Karen Greenberg – ricercatrice presso il Center on Law and Security della New York University -, in una riflessione - “Qual è il punto di equilibrio tra sicurezza e libertà” - pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 5 di settembre dell’anno 2009: Qual è il punto di equilibrio tra sicurezza e libertà. La questione della sicurezza non si risolve a colpi di pacchetti legislativi e decreti d'emergenza. Non si risolve affidandosi allo Stato, ma facendo i conti soprattutto con il fattore umano. Con la paura e la fragilità delle nostre vite. La garanzia della sicurezza non esiste, così come quella della libertà. Ci si può solo avvicinare a entrambe, per approssimazione. Il punto di equilibrio si misura più attraverso le emozioni che nei fatti. La paura del terrorismo, per esempio: è un sintomo dell'ansia generalizzata che ci attanaglia, lo specchio della percezione individuale e collettiva. Sentiamo ripetere che proteggere i cittadini è il compito fondamentale di ogni governo ma spesso dimentichiamo che è nostra responsabilità negoziare quali rischi siamo disposti a correre in cambio e cosa siamo disposti a sacrificare. La storia recente degli Stati Uniti ci insegna che cosa accade quando ci si abbandona alla paura: si lascia che un governo violi la legge, che faccia un uso spropositato della segretezza in nome della sicurezza e imponga dei limiti severi alle libertà civili. (…). E se tutto questo all'inizio ci ha rassicurati, nel lungo termine ci ha reso infinitamente più vulnerabili. (…). Che lezione impariamo da questo? Lo Stato non detiene il monopolio della sicurezza. Deve aprire la conversazione e stabilire un tono, ma poi sta a noi cittadini e alle comunità locali portarlo avanti. Il punto di partenza migliore è creare un senso di solidarietà interno. Come trovare quella compassione, intesa in senso non religioso, che leghi le persone e le spinga oltre paura, egoismo, individualismo sfrenato e sospetto verso l'altro? Sicurezza e libertà nascono anche da qui. Scrivevo la domenica 3 di aprile dell’anno 2011 in un post rinvenuto alla pagina 2452 di quell’e-book che ha fatto sopravvivere la “memoria” di questo blog: Non occorre spendere molte parole per “contestualizzare” l’annoso problema. Sull’onda della “emotività” e della “percezione”, categorie molto care ai “tromboni” reggitori della cosa pubblica nel bel paese, e bandendo per sempre dagli orizzonti della comunicazione sociale la “consapevolezza” che dovrebbe essere propria del “cittadino riflessivo”, tanto per prendere a prestito un concetto sociologico – in verità del “ceto medio riflessivo” - tanto caro allo storico Paul Ginsborg, il problema della sicurezza è stato un asso nella manica per vincere le elezioni politiche, falsando i dati sulla criminalità ed adombrando la possibilità che dietro ad ogni “cristo in Terra” che tenti di sfuggire alla miseria ed alle persecuzioni, si celi a tutti gli effetti un potenziale “terrorista”, islamico per giunta. Questo aspetto miserevole d’affrontare il problema dei moderni “migranti” è emerso con forza in tutte quelle occasioni che abbiano consentito nel bel paese di parlare di “migranti”, alterando realtà e dati statistici sempre, per legiferare in termini di totale chiusura verso i disperati del secolo ventunesimo, ed accogliendo utilitaristicamente soltanto quelle persone che soddisfacessero alle necessità d’impresa o familiari (raccoglitori, stallieri, badanti e contorno). Anche in occasione delle rivolte del nord d’Africa si è coltivata e propalata la più egoistica delle paure, adombrando, ancora una volta e irresponsabilmente,  dietro quei giovanili sommovimenti, condotti in nome della libertà e per una speranza di vita diversa e migliore, il rimontante pericolo del terrorismo islamico. Come suol dirsi, “il lupo perde il pelo ma non il vizio”, vizio che diviene sempre più oneroso nei termini della difesa dei diritti e delle libertà costituzionali dei singoli cittadini anche nel bel paese. Uno spettro s’aggira nelle ubertose contrade del bel paese: lo spettro del “prossimo” nostro, lo spettro di tutta quella umanità che tenta, con difficoltà, di spezzare le catene dell’oscurantismo, della miseria e della ingiustizia planetaria. Evitare che le masse emarginate ed affamate spezzino le loro secolari catene di fame e miserie rappresenta l’impegno massimo a livello di tanti governi di un Occidente oramai scristianizzato per garantire un oramai indifendibile stato di benessere e di privilegio pagato, “consapevolmente”,  e senza l’ipocrisia del dire “io non sapevo”, con la miseria nera dei più della Terra. Ebbene, oggi il nuovo vescovo di Roma, Francesco, rendendo la “memoria” persa - in un tempo nel quale solo il presente ha valore – a quell’immenso sterminio consumato nel mar Mediterraneo, sbugiarda con coraggio ed al contempo condanna una politica tutta che, nella risoluzione muscolare verso i deboli e gli inermi dei problemi della migrazione nel secolo ventunesimo, ha cercato quel consenso  che oscurasse e facesse meglio digerire gli insuccessi di governo nel mentre che la “crisi”, negata a più riprese, avrebbe fiaccato e disperse le residue fantasiose elucubrazioni degli inadeguati reggitori della cosa pubblica nel bel paese. E sì che i mercati avrebbero, da lì a pochi mesi da quel 3 di aprile dell’anno 2011, preteso la “cacciata” di un premier millantatore ed illusionista. I mercati e non la politica resasi impotente e lontana assai dai problemi della “gente”. Ha scritto Barbara Spinelli commentando sul quotidiano la Repubblica di mercoledì 10 di luglio – “Il crimine dell’indifferenza” – il primo viaggio del nuovo vescovo di Roma Francesco: Gesù non scolpisce leggi divine sulla pietra, quando assiste al processo dell`adultera: urge fermare un linciaggio. In un primo momento tace, si china a terra, e scrive sulla sabbia un`altra legge, che non si fissa perché sulla sabbia passa il vento. Importante è che la sua parola s`incammini nelle menti, aprendo un vuoto e facendo silenzio tutto intorno. Dicono che non è teologia: in realtà è teologia diversa. Gianfranco Brunelli lo spiega bene, in un articolo sul Regno: esiste uno stile cristiano (lo stile di Gesù), non meno sofisticato delle dottrine, e il Papa lo fa proprio quando proclama: «Il mondo di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni. Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita» (18 maggio 2013). La Parola è centrale nel cristianesimo, e nelle religioni del Libro. Non la parola scritta dottamente. Ma quella che dici all`altro: ai sommersi, sofferenti; ai «cari immigrati musulmani», cui il Papa augura un Ramadan ricco di «abbondanti frutti spirituali»; e ai tanti che di fronte al soffrire dicono al massimo poverino! e impassibili passano oltre. Francesco non passa oltre, anzi mette se stesso fra i colpevoli d`indifferenza: «Tanti di noi, mi includo anch`io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. (...). Ci siamo abituati alla sofferenza dell`altro, non ci riguarda, non è affare nostro!». La Chiesa romana è peccatrice, proprio come nella Commedia di Dante è responsabile del mondo uscito dai cardini, disastrata dal potere temporale. E colpevoli sono i sovrani d`Occidente, che tollerano quelle povertà estreme, e un Mediterraneo funebre, e l`immondo commercio di chi «sfrutta la povertà degli altri, facendone fonte di guadagno». Ecco: il messaggio vuole essere nuovo nell’indifferenza dilagante nella quale sono state buttate le nostre vite. Si dirà: ma è il messaggio del cristianesimo! Sì, ma era divenuto afono, poiché quel messaggio stava, in termini e parole diversi, anche sulla bocca di coloro che oggigiorno possono essere considerati i responsabili dell’immane tragedia nel mar Mediterraneo. E Francesco ha parlato in questo senso. Solo che lo si voglia ascoltare. E capire.

mercoledì 10 luglio 2013

Eventi. 8 Appello della rivista “MicroMega”.



“Una legge sul conflitto di interessi, che rende Berlusconi ineleggibile, esiste già. Vittorio Cimiotta, Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Dario Fo, Margherita Hack, Franca Rame, Barbara Spinelli chiedono al nuovo Parlamento che venga finalmente applicata, e Berlusconi non avrà più nessuna immunità di impunità”.

Berlusconi non era e non è eleggibile. Lo stabilisce la legge 361 del 1957, che è stata sistematicamente violata dalla Giunta delle elezioni della Camera dei deputati. Nel 1994 (maggioranza di centro-destra) e nel 1996 (maggioranza di centro-sinistra, primo governo Prodi), un comitato animato da Vittorio Cimiotta (“Giustizia e libertà”) e composto da Roberto Borrello, Giuseppe Bozzi, Paolo Flores d’Arcais, Alessandro Galante Garrone, Ettore Gallo, Antonio Giolitti, Paolo Sylos Labini, Vito Laterza, Enzo Marzo, Alessandro Pizzorusso, Aldo Visalberghi, e sostenuto da una campagna stampa del settimanale “l’Espresso”, organizza i ricorsi dei cittadini elettori, ricorsi che vengono respinti dalla Giunta delle elezioni della Camera (con l’unico voto in dissenso dell’on. Luigi Saraceni, che il centro-sinistra non confermerà nella Giunta del 1996) con la motivazione che l’articolo 10 comma 1 della legge dichiara in effetti che non sono eleggibili “coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica”, ma che “l’inciso ‘in proprio’ doveva intendersi ‘in nome proprio’, e quindi non applicabile all’on. Berlusconi, atteso che questi non era titolare di concessioni televisive in nome proprio”. Palese interpretazione da azzeccagarbugli, poiché come scrisse il presidente emerito della Corte Costituzionale Ettore Gallo “ciò che conta è la concreta effettiva presenza dell’interesse privato e personale nei rapporti con lo Stato”. Tanto è vero che la “legge Mammì” del 6 agosto 1990, n° 223 sulla disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato stabiliva all’art. 12 il “Registro nazionale delle imprese radiotelevisive” e all’art. 17 comma 2 precisava che “qualora i concessionari privati siano costituiti in forma di società per azioni ecc. … la maggioranza delle azioni aventi diritto di voto e delle quote devono essere intestate a persone fisiche, o a società ecc. … purché siano comunque individuabili le persone fisiche che detengono o controllano le azioni aventi diritto al voto”. MicroMega decide perciò di riprendere quella battaglia di legalità ormai ventennale attraverso due iniziative: un appello di un gruppo di personalità della società civile, sui cui raccogliere on line le adesioni di tutti i cittadini (con l’obiettivo di migliaia e migliaia di firme), e il fac-simile del ricorso, che potrà essere attivato da ogni elettore del collegio senatoriale per il quale opterà Berlusconi. Nell’ultimo giorno valido (20 giorni a partire dalla proclamazione degli eletti), MicroMega organizzerà la consegna di massa dei ricorsi alla Presidenza e alla Giunta delle elezioni del Senato.

Vittorio Cimiotta, Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Dario Fo, Margherita Hack, Franca Rame, Barbara Spinelli.

martedì 9 luglio 2013

Cosecosì. 58 “Piccolissimi complici”.



Oggi è come lasciare il sentiero sicuro ed agevole tante volte fatto e rifatto. È come percorrere un sentiero diverso e nuovo e scoprire che esso, percorrendolo, porta verso luoghi più sicuri e più ameni. È che oggi lascio le cose lette e scritte di sempre per un percorso nuovo. Non della “casta” oggi, non dell’”antipolitica” oggi, non oggi delle solite orrende maschere di una tragi-commedia della quale si sentirebbe il bisogno di disfarsene per sempre. È che sull’ultimo numero del settimanale “Il Venerdì di repubblica” – del 5 di luglio - ho rinvenuto un articolo di grandissimo interesse. Il titolo di esso mi è servito per il titolo del post di oggi: “Piccolissimi complici” di Alex Saragosa. L’ho letto e mi è sembrato naturale proporlo di seguito nella sua interezza. Poiché lo scritto di Saragosa apre orizzonti nuovi, inesplorati, la lettura del quale mi auguro induca i pochissimi malcapitati in questo blog a provare a percorrere un sentiero nuovo che ha come meta un diverso “ben-essere” psico-fisico. Di quel tanto di “ben-essere” raggiungibile del quale, in tante occasioni della mia attività di educatore, mi sono fatto umile portavoce e piccolo profeta. Di quel possibile “ben-essere” raggiungibile al di fuori degli schematismi ricorrenti ed imperanti e del quale ho avuto modo di sapere incontrando ed affidandomi alla scienza ed alla sapienza del dottor A. R., incontrandolo in quel luogo boscoso situato sulle primissime alture dell’altopiano silano, luogo che ha dato i natali al celeberrimo pittore Mattia Preti. Devo al dottor A. R. le mie pochissime conoscenze in fatto di omeopatia e di quant’altro afferente ad una medicina millenaria ma relegata a fare da ancella povera e misconosciuta alla medicina ufficiale. È che il dottor A. R. è, a tutti gli effetti di legge, un medico della medicina ufficiale. Ma un medico speciale, poiché la “curiosità” non lo ha abbandonato e pertanto pratica la medicina ufficiale ma al contempo esplora con scienza e coscienza quanto di diverso possa esserci nelle medicine considerate – a torto - minori. Devo al dottor A. R. se ho sentito parlare di “terreno”, con riferimento al nostro apparato gastro-intestinale. E come dal “benessere” di quell’apparato ne derivi il “ben-essere” del nostro organismo nel suo complesso. E di come quel “terreno” andasse tenuto sempre sotto controllo, “bonificato” se necessario, evitando che in esso si instaurassero condizioni di mono-coltura che gravissimo danno concorrerebbero a creare all’organismo tutto. È ciò che ho imparato incontrando il dottor A. R., ascoltando le Sue meditate parole e che ho cercato di mettere in pratica scrupolosamente attirandomi spesso l’ilarità ed i rimbrotti vari dei più. Nel testo di Saragosa si parla di tutto ciò alla luce delle ultime scoperte fatte da quella che è ritenuta la medicina ufficiale dominante. La “curiosità scientifica” del dottor A. R. trova il giusto riconoscimento, un indiscutibile valore. Provate a percorrere il sentiero nuovo che si dischiude con il testo di seguito proposto e che potrebbe condurvi a conquistare quel “ben-essere” da sempre desiderato ma non raggiunto.

I1 latte umano contiene 700 specie di batteri diversi: lo ha rivelato una ricerca pubblicata della microbiologa María Carmen Collado, dell'Istituto di agrochimica spagnolo. Dobbiamo preoccuparci e pastorizzare anche il latte della mamma? No, al contrario, dobbiamo essere lieti nello scoprire come questo latte contribuisca a costruire nel neonato quel complesso mix di microrganismi che gli permetterà di sopravvivere. È sempre più evidente infatti che non siamo individui, ma ecosistemi, e riusciamo a mantenerci in salute grazie al microbioma, ovvero alla patina di batteri, funghi e lieviti che ricopre le parti del nostro corpo in contatto o con scambi con l'esterno (dalla pelle all'intestino, dai bronchi all'uretra) impedendo che vengano colonizzate da varietà patogene. Una persona di 70 chili si porta dietro un numero di cellule estranee 10 volte superiori alle sue, circa 2 chili di microrganismi che, da potenziali nemici, in milioni di anni di evoluzione sono diventati preziosi alleati. «Il micro bioma è come un altro organo del nostro corpo, le cui funzioni stiamo cominciando a capire solo ora» dice la microbiologa Carlotta De Filippo, che studia il microbioma alla fondazione trentina Edmund Mach. Dal 2008 il consorzio internazionale Human Microbiome Project, promosso dal National Health Institute americano, censisce i microrganismi che convivono con l'umanità: per ora ne hanno individuato oltre 10 mila specie. Fra le centinaia di persone di cui hanno analizzato il microbioma, c'è anche il giornalista Michael Pollan, che ha raccontato sul magazine del New York i risultati del suo esame: possiede un ottimo microrganismi, tra i quali figurano quelli della famiglia Prevotella, che digeriscono fibre vegetali, frutto probabilmente della sua dieta largamente vegetariana. Nelle popolazioni dei Paesi avanzati, invece, questi batteri stanno diventando relativamente scarsi, sostituiti da altri, come i Firmicutes, più a loro agio in un ambiente ricco di zuccheri e proteine, ma che non sembrano altrettanto utili al nostro benessere. «In realtà non sappiamo quale sia il microbioma "perfetto"» dice il microbiologo Rob Knights, dell'Università del Colorado a Boulders, ricercatore di punta dello Human Microbiome Project, «anche perché l'ideale varia con la dieta e l'ambiente in cui si vive. Per esempio nell'intestino dei giapponesi, e solo nel loro, è presente un batterio specializzato nella digestione delle alghe. Pensiamo però che più il microbioma è diversificato meglio sia. Infatti, se l'uomo ha 27 mila geni nel suo Dna, il Dna del suo microbioma ne contiene milioni, e più è grande la varietà più è probabile che abbia una soluzione pronta per rispondere a variazioni nella dieta o alla presenza di patogeni». La costruzione di un microbioma vario ed equilibrato inizia dai primi secondi di vita. «Nasciamo sterili» dice Duccio Cavalieri, biologo, che lavora con De Filippo nello studio del microbioma delle aree alpine, «ma già il passaggio attraverso il canale materno ci conferisce una carica batterica in grado di "addestrare" il nostro sistema immunitario a distinguere gli "amici" presenti nel corpo materno dai batteri estranei. Una ricerca del febbraio scorso, condotta dalla pediatra Christine Cole Johnson, ha mostrato come la mancanza di questo imprinting batterico nei bambini nati per parto cesareo possa portarli a sviluppare cinque volte più allergie di quelli nati con parto naturale». A completare il nuovo micro bioma pensa poi l'allattamento al seno, sia con i batteri presenti nel latte, sia con quelli di ceppo bifidus che prosperano sui capezzoli materni. Addirittura si potrebbe dire che la madre allatti il microbioma: certi zuccheri contenuti nel latte non sono infatti digeribili per il piccolo, ma solo per i suoi bifidus. «II microbioma del bambino» continua Cavalieri «si perfeziona entro i primi quattro anni di vita, assumendo altre specie sia dal cibo solido che dall'ambiente dove vive, animali domestici compresi, fino ad arrivare ad averne uno simile a quello dei propri genitori. «C'è il forte sospetto» dice De Filippo «che far crescere i bambini in una bolla di igiene eccessiva, dando loro solo cibi sterilizzati, non facendoli giocare cori animali o per terra, curandoli con antibiotici a ogni raffreddore, impoverisca il loro microbioma, creando le premesse per le allergie». In età adulta, poi, è fondamentale la presenza nel microbioma di batteri che digeriscono le fibre vegetali. «Il colon» dice De Filippo «ospita i batteri che digeriscono le fibre, producendo butirrato, che le cellule dell'epitelio intestinale, isolate dal flusso sanguigno, usano come nutrimento. Se quei batteri scarseggiano, le cellule dell'epitelio si diradano, rendendo l'intestino permeabile al passaggio di mi-crorganismi, tossine e proteine non digerite, e innescando uno stato di costante infiammazione nell'organismo. E questa potrebbe essere una delle cause di patologie "moderne" come la sindrome metabolica, il diabete di tipo 2, le infiammazioni croniche intestinali, l'obesità». Uno studio condotto da Stanley Hazen, della Cleveland Clinic, ha rivelato che un microbioma squilibrato potrebbe essere anche il nesso fra consumo di carne e malattie cardiocircolatorie. Hazel aveva già dimostrato nel 2011 che i batteri intestinali trasformano alcune proteine della carne in Tmao, una sostanza che promuove l'arteriosclerosi. Ora ha misurato i livelli di Tmao in volontari che seguivano diete diverse dopo avergli fatto mangiare una bistecca: la scoperto che nei vegetariani i livelli di Tmao restavano molto più bassi rispetto a quelli di chi mangiava carne abitualmente. Sarebbe perciò il microbioma predominante a rendere la carne un alimento più o meno pericoloso per le arterie. La farmacologa Patrizia Brigidi, dell'Università di Bologna, ha invece esplorato con un gruppo di colleghi il cambiamento del microbioma negli anziani, rilevando una perdita di biodiversità e un aumento in specie patogene, forse dovuto all'invecchiamento del sistema inununitario. Questa modifica della nella flora intestinale apre la strada a uno stato di infiam-mazione permanente, deleterio per la salute, ma che potrebbe essere ridotto con l'assunzione quotidiana di probiotici. Ripristinare il corretto microbioma, però, non è semplice. «Anzitutto spesso l'organismo deve abituarsi fin dalla fase di sviluppo alla presenza di un microrganismo, per accettarlo come ospite» dice Cavalieri, «poi la dieta va adattata al nuovo microbioma: se aggiungo batteri che si nutrono di fibre vegetali, devo arricchire la mia dieta di fibre, per mantenerli. In terzo luogo, più che un singolo microrganismo, come i Famosi bifidus delle pubblicità, sarebbero più utili un mix di varie specie, ancora dla studiare nel dettaglio. Infine assumere integratori "probiotici" per bocca non garantisce che arrivino vivi all'intestino, a causa dell'acidità dello stomaco». In alcuni casi gravi, come le infezioni intestinali da Clostricliurn difficilis, batterio molto difficile da curare, si ricorre però già al trapianto di microbioma da una persona sana a una malata: è già avvenuto anche in Italia, al Policlinico Gemelli di Roma (prelevando flora batterica da un intestino e innestandola in un altro). Se il microbioma è tanto prezioso, allora bisogna impegnarsi per proteggerlo. «Meglio evitare antibiotici inutili e un eccesso di zuccheri, consumare vegetali vari e alimenti fermentati» suggerisce Knights. «Un approccio che può aiutare anche a rilanciare i nostri prodotti tipici»dice Cavalieri, che con De Filippo studia quelli del Trentino. «Dalla birra ai formaggi, al vino agli yogurt, la nostra industria alimentare potrebbe proporre nuovi prodotti che mantengano un equilibrio salutare del microbioma intestinale».