"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 20 giugno 2013

Cosecosì. 56 “Un professore e un Paese presi a schiaffi”



“Un professore e un Paese presi a schiaffi” è il titolo di un “pezzo” della insegnante e scrittrice Mila Spicola pubblicato sul quotidiano l’Unità del 16 di giugno. Ogni tanto mi garba tornare all’antico amore, sollecitato in questa occasione dall’illustre Autrice nonché collega. Scrive ad un certo punto del Suo pregevolissimo “pezzo”: La nuova geografica del lavoro mondiale coincide con la geografia dei saperi, lo hanno capito tutti nel mondo, tranne l’Italia, che si barcamena in ricette improbabili per combattere la crisi rimanendoci sull’orlo perché non è capace di comprendere quello che serve: innovazione, saperi qualificati e sguardo lungo. Per innovare e guardare lontano si devono promuovere alti livelli medi di conoscenza nella popolazione, e non lo fai attaccando un docente, ma migliorando le condizioni del sistema che deve promuoverli. È che nel bel paese si sono succeduti alla “cura” – si fa per dire – della cosa pubblica degli improvvisatori se non degli approfittatori punto e basta. E quanto detto trova riscontro nella crisi profonda nella quale vivono tutte le istituzioni culturali e formative. Del resto basterebbe rammentare le professioni d’incultura e di sprovvedutezza dei tanti improvvisati reggitori della cosa pubblica perché ci si possa dare tutte le risposte del caso. E Mila Spicola lo certifica nel Suo “pezzo”. Ebbe a dire un improvvisato di turno che con la cultura non si mangia. Ed un supremo – si fa per dire – si vantava di non leggere alcunché – tranne i fruttuosi bilanci aziendali – da una ventina di anni ed oltre. Nulla quindi che si possa definire come imprevisto. Continua Mila Spicola: A parole tutti lo desiderano nei fatti non sanno metterlo in atto, semplicemente perché ci vogliono azioni efficaci e competenti decise da chi di problemi complessissimi come l’innalzamento dei livelli medi si occupa da anni. Quasi tutti i rapporti relativi ai sistemi d’istruzione individuano come motore vero dell’innovazione dei sistemi d’istruzione e dunque dei paesi l’esercito degli insegnanti, non le strumentazioni da fornire agli insegnanti, o la valutazione dei docente, ma la formazione, la selezione e la qualificazione continua degli insegnanti. Qualcuno ha confuso la riqualificazione dei docenti con la valutazione dei docenti, quello è l’ultimo anello della catena. Non cambi il risultato in un sistema se ti limiti alla valutazione delle variabili dipendenti (l’operato dei docenti, i livelli cognitivi degli studenti), devi agire sulle cause dì quelle variabili. Formazione. È il tema cruciale di sempre. Affido alla straordinaria scrittura di Manara Valgimigli la rappresentazione dell’eterno problema della scuola pubblica del bel paese. La citazione l’ho tratta da “La mia scuola” – Vallecchi editore (1924) -, brillante lavoro editoriale pubblicato nell’oramai remoto 15 di gennaio dell’anno 1920 e che ho riportata nel mio volume “I professori” – AndreaOppureEditore (2006) – alla pagina 63: Nel primo anno del mio insegnamento, capitato in un ginnasio del Mezzogiorno, un collega anziano mi disse: - Collega, tieni in ordine il registro e poi "fottetinne". – Obbiettai, ingenuo: - Non sarebbe il caso piuttosto di invertire i termini - Collega, non farete carriera. –  E una volta, alcuni anni fa, un ministro pedagogista, di questi registri ne inventò tre: uno, per ogni singolo insegnante, che recava i voti e la materia spiegata e le lezioni e i lavori assegnati; uno in comune per tutti gli insegnanti, che stava su la cattedra e dove gli insegnanti diversi, man mano che si succedevano, indicavano ciascuno la materia spiegata e le lezioni e i lavori assegnati; e finalmente, un terzo, il così detto diario, per gli scolari, ai quali ogni insegnante dettava quello stesso che egli aveva scritto nel proprio registro e nel registro collegiale. Con questi tre registri l'insegnante modello poteva ridurre di mezz'ora la propria lezione. - Collega, tieni in ordine il registro e poi "fottetinne" . Il precetto del collega anziano aveva ricevuto da Sua Eccellenza il Ministro pedagogista la consacrazione ufficiale. Nel paese degli improvvisati e degli intrallazzatori di professione la cultura e la scuola non hanno mai potuto avere la giusta rilevanza e considerazione. È mancata anche la cosiddetta “considerazione sociale”. Ed il cerchio si chiude. Oggi, quella arretratezza la si paga a caro prezzo: la “crisi” morde con morsi feroci laddove l’arretratezza culturale è più marcata. Sostiene Mila Spicola: Tre sono i passi. Il primo: riqualificare la formazione universitaria. Diventi insegnante chi ha nel proprio bagaglio formativo non solo le conoscenze disciplinari (accade oggi) ma anche un bagaglio di «attrezzi del mestiere» che sono discipline come la pedagogia, la docimologia, la psicologia infantile e adolescenziale, la gestione e il management scolastico. Il secondo passo: la selezione dei docenti. Concorsi seri e veri. Che accertino non solo le conoscenze con batterie ridicole di test (spesso sbagliati, spesso oggetto di ricorsi, spesso abbonati a tutti per non incorrere in procedimenti d’infrazione) ma che prevedano prove che accertino anche le competenze necessarie per diventare insegnanti, comprese le predisposizioni psicoattitudinali a un mestiere difficilissimo. Il terzo passo. Rivoluzionare la professione. Un docente torni ad essere un intellettuale: deve studiare, deve avere il tempo di farlo e deve avere il riconoscimento perché lo fa. ‘È un lavoro intellettuale, che va praticato e riconosciuto come lavoro intellettuale, perché ciò accada bisogna, semplicemente porre in essere le condizioni affinché sia così. Non è peregrino immaginare che almeno ogni 4 anni un docente possa trascorrere sei mesi fuori dalle classi, a rotazione, per fare ricerca, dentro e fuori la scuola, per qualificarsi, studiare, partecipare a convegni, produrre sperimentazione, effettuare lavoro di supporto, organizzazione e produzione di saperi e attività dentro la sua scuola. Come dire, tutto qui? Ed allora propongo un’altra amena lettura. È stata riportata anch’essa nella mia pubblicazione prima citata – alla pagina 71 – ed è stata tratta da “La scala di Giocca” – Edizioni EDES (1984) - di Paolo Teobaldi: Il tema che il nostro gruppo doveva affrontare era: "Società agropastorale e attività ciclistica in Sardegna". Originariamente l'argomento doveva essere soltanto "Attività ciclistica in Sardegna" in quanto io la ritenevo una questione interdisciplinare, atta cioè a sviluppare tutte le tematiche congiunte con autonomi strumenti d'indagine; per esempio, sostenevo - e potrei ancora sostenere anche se ho cambiato mestiere - la pratica ciclistica favorisce un allacciamento con la geografia in quanto, prima di partire per una pedalata, o sgambatura, anche solo di 15-20 chilometri, occorre bene documentarsi sulla natura del terreno, del territorio diremmo oggi, controllando sulle tavolette dell'Istituto Geografico Militare, scala 1:25.000, quante fontane ci sono, quanti bar e quante trattorie; una pedalata circolare, in scioltezza, favorisce la circolazione sanguigna (qui si innesta la medicina!), cioè una migliore irrorazione delle vene e dei capillari di tutti gli arti, e di tutti gli organi cervello compreso, con conseguente miglioramento del livello medio delle spiegazioni e della capacità di sopportazione. Nodo fondamentale da esaminare sarebbe stato la mancanza, nelle squadre ciclistiche nazionali, di professionisti sardi, la ragione del quale fenomeno - io l'avevo solo accennata a Vincenzo - era nella storia stessa della regione, cioè nello stratificarsi di invasioni a opera di popoli poco amanti della bicicletta, fenici in testa, romani, pisani, spagnoli (che pure potevano essere buoni scalatori, o grimpeur, vista la loro complessione fisica), piemontesi, che lasciarono il cavallo solo per l'automobile.(…). A commento della stupenda pagina del Teobaldi avevo osato chiosare nella stesura di quel volume: E chi non ricorda di quegli anni i famosi o famigerati “corsi abitanti”, che furono di certo una panacea per risolvere l’allora precariato nella scuola pubblica, ma per i quali non si può avere rimpianto alcuno? Poiché essi hanno rappresentato indubbiamente l’affossamento di qualsiasi idea di miglioramento del servizio scolastico e la messa in soffitta di qualsiasi idea e strumento per una differenziazione meritocratica della carriera degli operatori scolastici, tanto per tornare ad usare una definizione al tempo molto in voga anche per designare altri operatori di attività di ben diverso peso culturale, ma non sociale. Leggere comunque la prosa del Teobaldi per averne una convincente prova; non si potrà alla fine non lasciarsi sfuggire un amarissimo e tenero sorriso, per un tempo che è stato. Un tempo amaro. È questo lo stato dell’arte. Chiude il Suo “pezzo” Mila Spicola così: Studiare vuol dire coltivare parole, coltivare pensieri, discernere per agire e trasferire queste capacità agli alunni: è la qualità della democrazia, la pregiudiziale del lavoro. E la “scarnificazione” del pensiero dove la mettiamo? Sta tutta qui, in questo vuoto pneumatico della menti volutamente creato.    

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