"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 4 maggio 2013

Lamemoriadeigiornipassati. 7 “La politica non può tacere”.



“La politica non può tacere” è stato il titolo di una analisi di Michele Prospero pubblicata il 4 di maggio dell’anno 2012 sul quotidiano l’Unità. Scriveva Michele Prospero, quasi in chiusura di quella analisi che anticipava gli eventi dell’oggi: La pretesa di far rinascere il prestigio dei partiti dinanzi alla povertà sociale e con l’enfasi sulla regolazione della vita interna è del tutto vana. Prima che sia troppo tardi, la politica, se non vuole soccombere, deve riprendere in mano gli eventi e impedire che tagli, austerità, sacrifici, rigore diventino l’unica agenda pubblica. Sono davanti ai nostri occhi resi increduli gli svolgimenti della politica del bel paese, fatta di “tradimenti” (a detta di lor signori del palazzo), di mancato rispetto degli impegni assunti solennemente dinnanzi agli elettori e con l’avvio di una fase così nebulosa che solamente i più spericolati giocatori d’azzardo avrebbero potuto disegnarne le traiettorie e stabilirne i contenuti. Quali saranno agli occhi di quell’elettorato tradito (due parti su tre degli elettori votanti) le traiettorie che la nuova fase percorrerà? E di quali contenuti essa si farà portatrice? Quale credibilità assegnare a così spericolati giocolieri? Allora, in quel 4 di maggio, Michele Prospero saggiamente titolava “la politica non può tacere”. Ed infatti essa, l’”antipolitica” che è al potere, ha parlato, goffamente, non ha taciuto, dicendo del “bianco” per il “nero”, tradendo così al contempo una ritrovata voglia di partecipazione delle persone e tradendo le aspettative di quel “rinnovamento” che avrebbe dovuto costituire l’altra sponda, quella della politica “buona” e non maccheronica, rispetto alla sponda delle tanto invocate “larghe intese” dalle quali, secondo le esperienze già maturate, ben poco ci sarà da ottenere per il cosiddetto “bene comune”. Ha scritto Gad Lerner il 3 di maggio sul quotidiano la Repubblica col titolo “Pd, la sindrome del rigetto”: È come se i dirigenti del Pd non avessero ben valutato le conseguenze delle procedure democratiche con cui avevano chiamato fino a pochi mesi fa l'elettorato e i tesserati alla partecipazione attiva. Dibattito libero, frequente ricorso alle primarie per sciogliere i nodi politici e selezionare i dirigenti. Con la democrazia non si scherza. Il rigetto diviene inevitabile e incontrollabile quando i dirigenti, anziché rivendicare uno spazio di autonomia decisionale, tramano nell'ombra; e una parte cospicua di loro vota contro Prodi al Quirinale, già considerando obbligata nei fatti l'alleanza di governo col Pdl che respingevano a parole. Doppiezza inaccettabile dacché l'epoca del centralismo democratico è archiviata. Un partito fondato sulla sovranità dei cittadini elettori non può tollerare un cambio repentino di strategia, votato da una Direzione durata meno di tre ore. Così l'imboscata dei 101 franchi tiratori, nessuno dei quali ha avuto il coraggio di motivare la propria scelta, e la conseguente nascita del governo di coalizione con la destra berlusconiana, ripropongono la categoria (impolitica?) del tradimento. (...). Illudersi che la politica segua il suo corso e che alla fine la base "digerirà" anche questo passaggio, significa ignorare non solo le tensioni sociali ma anche le legittime aspettative di condivisione che lo stesso Pd - novello apprendista stregone - ha sollecitato. Come si fa a predicare l'attuazione dell'articolo 49 (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” n.d.r.) della Costituzione e al tempo stesso rinnegare una linea politica democraticamente assunta? (…). Ma chi si illudesse di ridimensionare il travaglio in corso a malcontento sopportabile, non si rende conto che in poche settimane il Pd rischia di perdere il suo popolo. E la sua anima. Solo allora, quella politica che si è fatta “antipolitica” al potere, sarà messa a tacere. E la “politica”, quella “buona”, potrà tornare finalmente a parlare forte.

(…). La crisi non è ancora giunta al suo apice. Dopo l’euforia per una riduzione dello spread, che faceva sorgere il mito del tecnico come salvagente, subito collocato al vertice delle preferenze registrate dai sondaggisti compiacenti, cala mestamente l’inquietudine e l’angoscia sulle sorti reali del Paese. È bastato che il vento della crisi tornasse a soffiare per far saltare tutto il velo delle ipocrisie, delle finzioni, dei sogni scambiati per realtà. (…). La crisi è anzitutto sociale e rinvia alla perdita di valore del lavoro, alla eclisse della produttività di imprese decotte per mancanza di investimenti tecnologici, allo sfascio delle politiche pubbliche per lo sviluppo e per la lotta contro le diseguaglianze estreme. I governi hanno finora fatto ricorso alla più classica delle politiche dei due tempi. Prima viene l’emergenza che, in nome del risanamento immediato dei conti, giustifica tagli, misure devastanti che riconducono il tenore di vita delle persone indietro di almeno trent’anni. Poi dovrebbe seguire una attenzione alla crescita. Ma con il prelievo fiscale salito in poche settimane di ben tre punti, con addizionali regionali e comunali che da due mesi decurtano circa il 10 per cento dello stipendio, con bollette alle stelle, con rincari del costo della vita che si verificano senza alcun contrasto, quale crescita potrà mai realizzarsi? La divaricazione temporale tra rigore e crescita non ha mai funzionato. Il rigore poi è una parola ingannevole in un Paese nel cui spazio convivono due società ben differenziate: quella del lavoro, che paga tutto per tutti, e quella di una fetta ampia di benestanti che fugge dal fisco e non è neppure sfiorata dai sacrifici. Il rigore è nient’altro che la richiesta indecente al lavoro di accollarsi per intero i costi durissimi necessari per salvare il Paese. Per questo la crisi, da economica e sociale, sta diventando politica ossia crisi di legittimazione. E in ciò si nascondono le insidie peggiori. L’antipolitica, in tale congiuntura, non è solo una blasfema manifestazione che colpisce la sacralità della bella politica. È anche uno spettro che si aggira con un fare distruttivo. (…). Sulla base di quale presupposto un soggetto impoverito e sfiduciato dovrebbe comportarsi come un elettore razionale? La ragione in politica non è mai il punto di partenza scontato, è una difficile conquista che suppone azioni di forza reale. Quando a una società umiliata da tagli, blocchi di stipendio, inflazione, arriveranno anche il salasso dell’Imu, l’aumento dell’Iva, molti paletti salteranno. E allora bisognerà fare attenzione ai sondaggi, non a quelli odierni, che non dicono nulla della prospettiva, perché la crisi solo ora comincia a mostrare il suo demoniaco volto. La pretesa di far rinascere il prestigio dei partiti (…) dinanzi alla povertà sociale e con l’enfasi sulla regolazione della vita interna è del tutto vana. Prima che sia troppo tardi, la politica, se non vuole soccombere, deve riprendere in mano gli eventi e impedire che tagli, austerità, sacrifici, rigore diventino l’unica agenda pubblica. (…).

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