"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 2 aprile 2013

Lamemoriadeigiornipassati. 4 “Il 2 di aprile dell’anno 2011”.


Annotava nell’incipit del Suo pezzo il professor Galimberti il 2 di aprile dell’anno 2011, occupando la piazzaforte del potere il signor B. – sul settimanale "D" del quotidiano “la Repubblica”, “È davvero necessaria la guerra?” -: Scrive Wilfred Owen: Ai fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate, non ripetere la vecchia menzogna: Dulce et decorum est pro patria mori. È che è dei potenti considerare il popolo tutto come “fanciulli ansiosi” ai quali offrire sempre, come scriveva il sommo Orazio nelle Sue “Odi” (III, 2, 13) “dulce et decorum est pro patria mori”, ovvero “è dolce ed onorevole morire per la patria”. Solo che a morire andranno poi i più poveri, i più disgraziati, quelli che non hanno nulla da perdere se non la propria vita resa fastidiosa e quasi inutile, come l’immane carneficina della “grande guerra” ebbe a dimostrare molto amaramente nel primo ventennio del secolo decimonono. L’Orazio di quel tempo stimolava in verità i giovani romani ad imitare le virtù e l’eroismo guerriero degli antenati. Al tempo meschino nostro abbiamo visto (e deriso) un servitore del paese camuffarsi con tuta mimetica e con quant’altro lo facesse assomigliare ad un feroce ed indomabile guerriero. È che la storia, ebbe a dire un grande, si ripete sempre, ma nelle sue puntate successive frana immancabilmente e rovinosamente nella più esilarante delle “farse”. È quel che ci è toccato di vivere. E l’illustre studioso non può non ricordare, nella annotazione Sua, come quella oraziana locuzione sia stata utilizzata, ma con significato opposto, ovvero come denuncia della insensata “bestialità” della guerra, dal poeta inglese Wilfred Owen che la scrisse nell’anno di guerra 1917 mentre era ricoverato in ospedale per le ferite e lo schock causati da un bomba esplosagli accanto in battaglia e che sarebbe morto pochi giorni prima che quella prima “grande guerra” terminasse. Mi veniva da pensare a tutto questo - ed alla riflessione del professor Galimberti - nei giorni della “crisi” italo-indiana. E mi veniva da temere che a qualcuno dei nostri tonitruanti “tromboni”, sfuggiti magari in altri tempi alla ferma di leva, quand’essa era obbligatoria, oggigiorno in posa in tuta mimetica e telefonino, venisse in mente d’invocare il grande Orazio per la “battaglia” finale da portare in quegli sperduti oceani a difesa, per l’appunto, dell’”onor di patria” offeso. Ed a ripensar bene alla storia di quei due sciagurati, accolti come eroi in un paese d’imboscati “usi ad obbedir tacendo” e sempre in prima fila stretti e compattati nel pensiero primigenio dell’”armiamoci e partite”, ripensando a quella sciagurata storia non ho potuto fare a meno d’accostarne le vicende a quella di un certo capitano di nave fuggito per primo mentre il suo battello affondava al largo di una scogliera amica. Anche nella terrificante seconda storia di quell’inane un popolo tutto si mobilitava, nel paesello natio suo, per celebrarne l’”innocenza” a priori, come se un popolo belluino potesse sostituirsi agli organi allo scopo preposti. Messo al posto dei due sciagurati fucilieri mi sarei sentito tradito ed offeso – a quel pensiero - ed avrei invocato il rispetto dei patti e degli accordi. Uno “spicchio” della pochezza e della insensatezza degli atti dei governanti accorsi allo sbarco aereo dei due fucilieri ce lo ha offerto Barbara Spinelli in un Suo folgorante pensiero (postato a lato) che ho tratto da “I partiti al bivio di papa Francesco” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 27 di marzo. Ed adesso che facciamo? Facciamo la guerra all’India? Rileggiamo, di seguito ed in parte, quanto ha scritto, in quella remota data, il professor Galimberti: (…). …siccome la guerra è il male assoluto, da cui l'umanità, dal primo giorno della sua comparsa non si è ancora liberata, per giustificarla occorre ricorrere a una sua descrizione in termini ora razionali ora sacrali, che una buona retorica riesce a mescolare in una giusta ed efficace miscela. I motivi razionali, che di solito sono di natura economica (come ad esempio la nostra sete di petrolio i cui giacimenti o i canali di conduzione devono essere assolutamente garantiti), non sempre sono esplicitamente confessabili, perché tutti noi, non si sa fin quando, ma per il momento ancora, fatichiamo ad accettare che il prezzo dei beni di cui necessitiamo debba comportare la morte di giovani vite. E allora un motivo razionale più convincente e persuasivo è il pericolo del terrorismo, (…). Anche per i poveri morti indiani, pescatori, scomparsi in carne ed ossa ma ancor più dalla collettiva memoria senza che si rendesse loro giustizia, come se la loro morte fosse del tutto “insignificante”, si è invocata, a tutela forse dei due sciagurati fucilieri, la loro appartenenza alla pirateria del secolo ventunesimo. Come con uno strano teorema: se pirati, le responsabilità degli uccisori scemano. Lasciamolo decidere ai tribunali. O facciamo la guerra? Aggiunge il professor Galimberti: Quando i motivi razionali non tengono si ricorre a suggestioni sacrali, come la difesa della nostra civiltà, della nostra cultura, della nostra religione, e qui il discorso sale a un livello dove non è più necessario discutere in termini razionali dividendo il campo tra i pro e i contro, perché quando sono in gioco patria, civiltà, cultura, religione, identità e appartenenza, allora entriamo nella sfera del sacro, dove la guerra è benedetta da Dio, come da una parte e dell'altra si diceva in occasione della guerra in Iraq, e precisamente sia da Bush sia da Bin Laden, dimenticando, sia l'uno sia l'altro, che è lo stesso Dio, quello cristiano e quello musulmano, che ciascuno proclamava schierato dalla propria parte. Di fronte al sacro i motivi razionali, sia quelli confessabili, sia soprattutto quelli inconfessabili, escono di scena, e in tal modo risultano meglio e definitivamente protetti. Messe da parte le parole della ragione, al loro posto subentrano le parole del sacro che parlano di eroismo, di martirio, di sacrificio estremo: ad esse non si può fare alcuna obiezione perché suonerebbe come una bestemmia. Attraverso l'alone di sacralità, con cui la si circonda, la guerra in questo modo è salva e può continuare il suo teatro lugubre e truce. Anche in nome di quegli “stranissimi” nostri eroi.

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