"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 14 marzo 2013

Uominiedio. 6 “Francesco” e quella chiesa di Roma.



Questa rubrichetta, che non ha pretese, l’ho denominata “uominiedio”. E perciò, oggi, senza pretese, si parlerà solo degli uomini. E che il dio riposi in pace. Il salto sul divano l’ho fatto alla notizia che il subentrante vescovo di Roma avrebbe scelto di chiamarsi “Francesco”. È da giorni che gli allibratori davano questa scelta come la più probabile, da qualsivoglia eletto fosse pervenuta. Era scritta nelle carte, anzi su nel cielo. Una scelta imposta dalle impietose cronache correnti. Una scelta che sapesse d’espiazione per tutti i torti commessi da quella chiesa asserragliata nei suoi sontuosi palazzi ed abbastanza lontana dagli uomini. Un ritorno alle origini? “Ma mi faccia il piacere” avrebbe esclamato la grande maschera della italianità? La chiesa fattasi stato non potrà mai e poi mai operare quel salutare ritorno alle origini: è il suo vissuto plurisecolare che lo impedisce. E così abbiamo il primo “Francesco”. Una scelta che fa i conti con la tristissima, cruenta storia di quella chiesa. Nulla di più, nulla di meno. E così è stato, come facilmente pronosticato nei giorni del grande bla bla bla, per rispondere a quell’ansia ed a quello smarrimento che nelle coscienze di tanti adepti ha suscitato l’invereconda cronaca di questi anni. Al sobbalzo è seguita la domanda mia: quale “Francesco”? Quello di Assisi? Un ritorno alla povertà predicata da quel pover’uomo? Ai buoni costumi? A suo tempo fra’ Francesco osò contrapporsi alla chiesa di Roma. Ma fu accorto abbastanza per non rimetterci la pelle. È che nella storia di quella chiesa ci fu un certo fra’ Dolcino da Novara che finì come finì, ovvero bruciato sul rogo nell’anno del signore 1307. È che contro i Catari il vescovo di Roma Innocenzo III organizzò, nell’anno sempre del signore 1208 una crociata, la prima che affondasse le lame affilatissime e benedette delle armate cristiane nelle carni di altri inermi cristiani – avendo i catari commesso un errore capitale, ovvero di congregarsi in chiesa al pari della chiesa di Roma e divenendone di fatto una concorrente -. È che, nonostante tutto il massacro che ne conseguì, per rimediare all'inefficacia della “soluzione finale” voluta  con la crociata da quel vescovo di Roma e per debellare l'eresia catara sino alle sue ultime fibrille, fu appositamente creato dal vescovo di Roma Gregorio IX, forse su ispirazione dall’altissimo del cielo, il Tribunale dell'Inquisizione, che impiegò ben settant'anni per estirpare il catarismo dal sud della Francia. Intanto lui, il poverello d’Assisi, si destreggiava abilmente per non incorrere nelle materne ire di quella chiesa e per non lasciarci prosaicamente la pelle. Dunque: “Francesco”. Ma quale? Qualcuno ha suggerito che si trattasse di un Francesco Saverio. Sarà. Ha scritto il teologo Vito Mancuso – su la Repubblica del 9 di marzo, “Adesso la chiesa apra le sue porte” -: La curia romana è considerata luogo e causa degli scandali morali e finanziari che hanno condotto (…) molti cattolici a non sentirsi più tali. La curia però non è piovuta dall’alto. Se la sono disegnata i Papi lungo la storia secondo una determinata concezione del papato emersa a partire da Gregorio VII con i celebri Dictatus Papae (1075) che hanno fatto del Romano Pontefice un dictator e del papato una dictatura. Tale concezione verticistica del papato rispecchia a sua volta la cosmologia del passato, quella specie di universo a tre piani con amministrazione centralizzata che abbiamo studiato a scuola con la Divina Commedia. Cosmologia, ecclesiologia e politica formavano un tutt’uno, ed è in base a quella concezione ormai in frantumi che ancora oggi vengono pensati il papato e la curia. La rivoluzione scientifica e le altre rivoluzioni susseguitesi a tutti i livelli della vita umana hanno distrutto la visione tradizionale del mondo e per questo oggi tutte le istituzioni verticistiche sono in crisi: lo sono, perché la mente umana non guarda più in alto per capire cosa fare. E con il verticismo della tradizione sono in crisi i valori che esso, almeno formalmente, garantiva, come il primato del diritto sul denaro, della gentilezza sulla volgarità, dell’onestà sulla furbizia, dell’aristocrazia dell’animo sulle passioni delle masse, del ragionamento sul populismo. Le conseguenze di tutto ciò si manifestano oggi come nichilismo delle anime e anarchia dei corpi, disperazione interiore e lacerazione sociale. La crisi della Chiesa si salda alla crisi della società, ormai massa anonima di individui e non più societas di cui ci si sente soci e di cui si tutela il bene come fosse il proprio. (…). Scriveva Francesco Merlo – la Repubblica del 30 di giugno dell’anno 2012, “Don Puglisi e gli altri santi che vanno tolti alla mafia” – al tempo della canonizzazione di quell’uomo coraggioso: Non basta fare santo un eroe dell’antimafia, la Chiesa deve adesso strappare tutti gli altri santi alla mafia (in senso lato, come potere criminale n.d.r.), compreso Gesù Cristo che nella devozione malata dei criminali è reso pari ad ogni malacarne messo ai ceppi dagli sbirri.  Don Puglisi rischia dunque di sentirsi solo in un Paradiso  affollato dalle troppe preghiere dei boss, dai ceri dei sicari, dai te deum degli estortori, dalle orazioni degli stragisti, dalle devozioni lautamente finanziate, dai peccatori sanguinari che hanno fatto della Chiesa (…) il loro covo, la banca dei loro sentimenti. (…). Ma di certo è ancora troppo poco in un universo religioso che è dominato e pagato dal devoto violento, dal killer che prega e spara, dal mafioso che bacia il crocifisso e strangola, dal boss che domina il delitto e innalza altarini alla Madonna, legge e annota la Bibbia e allo stadio di Catania fa calare sulla  curva sud un enorme striscione,  venti metri per trenta, con l’immagine di Sant’Agata in carcere, il viso reclinato verso la finestra della prigione da cui arriva un fascio di luce divina. Come si può santificare il martirio – la testimonianza -  di don Puglisi e non sospendere, come primo atto di purificazione, le feste religiose che sono esplosioni collettive dell’anima antica e oscura per un tema liturgico, quello della Passione, in cui la mafia, bestemmiandolo, si riconosce, si specchia: il tradimento (Giuda), l’assassinio (Cristo), lo strazio della Madre Addolorata (la Madonna). Ed è vero che non esiste nulla di così affollato come le feste religiose della Sicilia spagnola e si capisce che la Chiesa, in crisi di vocazioni e di consenso, cerchi la folla. Ma le processioni sono le palestre del rancore popolare, un concentrato di antichissima ferocia pagana che i boss riciclano per riaffermare il controllo assoluto del territorio. E nel cappuccio sono depositate tutte le pratiche più lugubri, precristiane e anticristiane, un armamentario devozionale che è apparentato con le processioni sciite, con il peggio del fondamentalismo e del fanatismo di massa dell’Iran. Ma il cappuccio è anche il nascondersi che  in latino si dice lateo, quindi latitare, quindi latitante, tra  fucili e crocefissi,  bombe a mano e immagini dei santi, di tutti i santi. È la chiesa che abbiamo conosciuto e riconosciuto nelle tante occasioni nelle quali essa ha negato a qualcuno la carità che le dovrebbe essere propria, volgendo altrove lo sguardo; o quando abbiamo visto i potenti accorrere per toccare il suo manto ed impetrarne i favori e le indulgenze e sollecitando in cambio, ad essi, la difesa dei cosiddetti “principi irrinunciabili”, dimentica delle vergognose tolleranze accordate. È che quei potenti, violenti, malfattori o politici di turno, hanno assicurato ai vertici di quella chiesa la possibilità di creare una ricchezza che stride con l’insegnamento che l’uomo di Nazareth ha speso invano. Quella chiesa è stata sempre schierata da una precisa parte, e da quella parte ha ottenuto considerazione, protezione, privilegi e ricchezza. La verticistica struttura di quella chiesa ha bagnato ed intriso la sua storia, irreparabilmente. Scrive ancora Vito Mancuso: L’ordine scende dall’alto, l’organizzazione sale dal basso, l’ordine è maschile, l’organizzazione è femminile, laddove maschile e femminile indicano due modi diversi di stare al mondo e di considerare gli altri: da un lato un modo dominante, dall’altro un modo cooperante; da un lato il primato, dall’altro la relazione; da un lato il dictatus, dall’altro il collegium. Oggi in Occidente nessun sistema complesso può essere governato dall’alto imponendo ordine in modo direttivo. I popoli e le società, la scuola e il mondo dell’educazione, le famiglie de iure e quelle solo de facto, persino le aziende più innovative mettono in discussione il modello tradizionale di leadership. Ma è soprattutto la mente (…) a non poter più essere governata dal principio di autorità. (…). L’unica soluzione sta nel comprendere che il principio che può dare direzione, governo e senso, trattenendo dal precipitare nel nichilismo interiore e nell’anarchia sociale, è la fede nella logica relazionale, nell’armonia, nella ricerca del bene, della giustizia, della pace, non in quanto conosciuti una volta per sempre secondo la logica verticistica dei “principi non negoziabili” (…), ma quali volta per volta è possibile realizzare nella situazione concreta alle prese con il chiaroscuro della vita (…). E Francesco Merlo annota nel Suo scritto: E pensate  al linguaggio che è sempre carne viva, pensate a quanto c’è di cattolico nelle parole e nel codice della mafia: cupola, papa, padrino, mammasantissima, e poi il bacio dell’anello, il rogo del santino nell’iniziazione… E a tutto i latitanti rinunziano ma non ai battesimi, alle cresime, alle processioni appunto. Finirà tutto ciò con il nuovo vescovo di Roma?

Nessun commento:

Posta un commento