"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 20 marzo 2013

Lamemoriadeigiornipassati. 1 “Il venti di marzo dell’anno 2010”.



A fianco. Bruegel: "La parabola dei ciechi".
 
Penso d’aver compiuto una impresa ciclopica: ho risistemato cronologicamente il mio “tesoretto” di vecchi ritagli dei settimanali e dei quotidiani. Un’impresa che avevo in animo di realizzare da lungo tempo e che avevo sempre procrastinato. Complice la stagione non ancora primaverile ci sono riuscito. Una conquista. Ciò mi consente di accedere a quei ritagli secondo il calendario corrente, ma con una particolarità: rileggerò e proporrò letture di un tempo che sembra andato, perduto. Un modo come un altro per coltivare la memoria, in un tempo nel quale essa ottiene poco spazio e nessun ascolto. Ha lasciato scritto il grande Elias Canetti (1905-1994) nel Suo volume “Auto da fé”: “La cecità è un’arma contro il tempo e lo spazio; la nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità, tranne quel poco che riusciamo a cogliere con i nostri miseri sensi – miseri sia per la loro natura sia per la loro acutezza -. Il principio dominante del cosmo è la cecità. Proprio essa rende possibile la presenza, l’una accanto all’altra, di tante cose che non potrebbero coesistere se si potessero vedere reciprocamente. Essa permette di troncare lo scorrere del tempo quando non si è in grado di tenervi testa. (…). Il tempo è una grandezza continua, e c’è solo un mezzo per sfuggirgli. Astenendosi di tanto in tanto dal guardarlo, lo si frantuma nelle schegge che di esso si conoscono”. Per l’appunto: lo scorrere del tempo che tutto ricopre e seppellisce sotto l’incalzare impetuoso ed incessante del vivere. Questa rubrichetta senza pretese ha lo scopo di riscoprire una memoria salvata non in tomi oramai polverosi ma in semplici, modesti ritagli di carta. È la carta che prova a restituirci una memoria che non è più tale. Si parta. Il 20 di marzo dell’anno 2010 il professor Umberto Galimberti pubblicava sul numero 686 del settimanale “D” una riflessione che ha per titolo “Assenza di gravità”. La ripropongo di seguito nella sua interezza. Scopriremo in essa un qualcosa che abbia a che fare con il nostro periglioso presente? E se non fossimo stati ciechi quel 20 di marzo dell’anno 2010?

Gli uomini hanno sempre cercato di cambiare il mondo. Oggi si ha l'impressione che il mondo cambi senza neppure la nostra collaborazione. E la cosa non sembra preoccupi granché. Le sollecitazioni non mancano, ma a promuoverle sono le parole della passività che si chiamano speranza, auspicio, augurio. In realtà siamo pervasi da speranze deluse circa la possibilità di reperire un senso, e nella cadenzata successione dei giorni ci accompagna quell'inerzia che neppure percepiamo, perché mascherata da quel frenetico darsi da fare, di cui però fatichiamo a reperire non solo lo scopo, ma anche il perché. Avvolti come siamo da una sovrabbondanza e da un'opulenza che, nonostante la crisi, tali rimangono rispetto alle condizioni del resto del mondo, ad esse ci affidiamo come ad addormentatori sociali, per non assistere alla nostra quasi totale indifferenza rispetto a una qualsiasi gerarchia di valori, quindi noia, spleen senza poesia. Tutti questi fattori scavano un terreno dove si radica quel senso di insignificanza che non è la disperazione che affligge quanti un giorno hanno sperato, ma una sorta di assenza di gravità, di chi si trova a muoversi nel sociale come in uno spazio in disuso, e dove non è più il caso di elevare una lamentazione, un grido di indignazione e neppure un richiamo, perché l'impressione è che non ci sia nessuno in grado di raccogliere quelle voci destinate a ritornare come ritorna l'eco di un grido. La cultura dello stordimento, quella della televisione e degli stadi per intenderci, bolla tutto questo come pessimismo. In realtà si tratta di qualcosa di molto più grave che Nietzsche aveva chiamato nichilismo: il più inquietante degli ospiti, e così definito: - manca il fine, manca la risposta al perché. Che cosa significa nichilismo: che i valori supremi perdono ogni valore -. Sono ormai 130 anni che risuona questo grido nietzscheano, tenuto a freno e combattuto dall'ottimismo cristiano, nonostante le due guerre mondiali, lo sterminio nazista, la fame nel mondo, la migrazione dei disperati della terra, e da noi, occultato da quell'arma forse più semplice ed efficace che è la distrazione, propagata a dosi massicce per evitare di pensare, di sentire e persino di percepire ciò che ci sta realmente accadendo.

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