"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 5 marzo 2013

Cronachebarbare. 7 Sbianchettare, smacchiare.



Hai voglia di “sbianchettare”, come in un tempo passato di scandali istituzionali – “Mitrokhin” e dintorni - si disse. Oggi soccorre, nell’immaginario collettivo, l’immagine consolatoria del giaguaro debitamente “smacchiato”. Quale colpa ha il nobile animale se la sua livrea non ha il candore che gli smacchiatori di professione prediligono? È che gli sbianchettatori o gli smacchiatori di turno hanno in definitiva sbianchettato o smacchiato il pensiero politico e civico del bel paese. C’è poco da scherzare e da stare allegri. Oggi domina il pensiero semplice, sbianchettato o smacchiato per l’appunto. Come in tutte le società complesse si tende ad eliminare la complessità del pensare sbianchettando o smacchiando, ché fa lo stesso. Donde la felice intuizione del nostro: via i partiti. Una semplificazione così è difficile da pensarsi. Lo sarà pure da realizzare? Scrive Gad Lerner nel Suo editoriale “La democrazia senza partiti” – sul quotidiano la Repubblica del 4 di marzo 2013: Beppe Grillo non è un improvvisatore quando proclama, a pagina 79 del libro scritto con Dario Fo e Gianroberto Casaleggio (Il grillo canta sempre al tramonto, Chiarelettere): “Noi vorremmo che i partiti scomparissero radicalmente”. E difatti prosegue: “Lo so, molti potrebbero domandare: ma in Parlamento se non ci sono i partiti chi ci sarà? Come può esistere un Parlamento senza i partiti? Ci saranno i movimenti, i comitati, tutte espressioni di esigenze che provengono dalla società civile”. Bene. Ma tutto ciò può accadere quando nella storia di un paese si è preferito sbianchettare o smacchiare ma giammai affrontare i problemi che abbisognano d’essere affrontati e non lasciati marcire. Ne ha scritto saggiamente sul quotidiano l’Unità del 28 di febbraio Michele Ciliberto nella riflessione che ha per titolo “La vittoria di Grillo e il nodo della democrazia diretta”: Il punto principale da cui partire è questo: nel nostro Paese è aperto ormai da quasi mezzo secolo il problema delle fonti e dei caratteri della sovranità: in altre parole è sul tappeto il problema delle forme e dei soggetti della democrazia. (…). Ed è allora avvenuto che nel paese dell’amorale principio del “tengo famiglia”, ovvero nel paese del pensiero semplificato se non annichilito e dello stupefacente “io l’avevo detto” si siano riaperte strade percorse e ripercorse da sempre, nel passato remoto e nel presente della sua storia, per le quali così scrive l’illustre opinionista: in questa prospettiva va situato il berlusconismo che non è stato, come a lungo si è pensato specie a sinistra, la performance teatrale di un bravo attore, ma il tentativo più organico compiuto in Italia di risolvere in chiave reazionaria il problema delle fonti e delle forme del potere, della sovranità: in una parola, della democrazia. Lo ha fatto, certo, con un uso sapientissimo dei media e interpretando e rappresentando interessi, bisogni, aspettative sociali di ceti assai vasti e non interpretabili alla luce delle vecchie nomenclature, a cominciare da quella di classe. (…). Ecco un pensiero “pesante”, e pensante, non sbianchettato né tanto meno smacchiato. Di quei pensieri che la nostra mala politica ha preferito non affrontare con e tra la gente né, tanto meno, con e tra gli addetti ai lavori. E si è lasciato che le cose proseguissero per inerzia lungo un pendio che ha portato alle deplorevoli condizioni attuali della nostra democrazia. Continua Michele Ciliberto nella Sua analisi: (…). …Berlusconi ha proceduto (…) imponendo un modello di demagogia dispotica imperniata su un individualismo esasperato stabilendo su queste basi una egemonia culturale forte e di vasta portata. (…). Ma in generale il distacco tra dirigenti e diretti nel ventennio berlusconiano si è approfondito, non è venuto meno. (…). Ed è a questo punto che l’illustre Autore contestualizza il Suo ragionare: La forza della proposta di Grillo sta qui: ha intercettato ed enfatizzato questa esigenza di mutamento, ma curvandola – ed è questo il suo limite – nella direzione di una democrazia diretta, con una netto rifiuto della democrazia rappresentativa e dei suoi organi. Grillo parla infatti di «comunità» contrapponendola al termine «società»; e alla figura del rappresentante sostituisce quella del delegato, revocabile in ogni momento da parte del popolo, cioè dal capo carismatico. Fra Stato e popolo per Grillo non devono esserci mediazioni di alcun tipo: il rapporto deve essere diretto, secondo i canoni della democrazia diretta di matrice ottocentesca. È naturale che in una concezione di questo tipo ci siano pulsioni dispotiche, (…). Come non scorgere in questa successione di fatti la colpevolezza di quella che da tempo vado definendo come l’”antipolitica” al potere che ha scacciato la “politica buona” sbianchettando e smacchiando quanto di pensiero complesso sia sopravvissuto nel bel paese. A ben ragione Gad Lerner scrive: Prima di liquidarlo come velleitario utopista o, peggio, come eversore, dobbiamo riconoscere che il suo pensiero si inscrive in un filone movimentista di antica tradizione giacobina, anarchica, pansindacalista: da Saint Just a Bakunin, a Sorel. Per oltre un secolo i movimenti rivoluzionari sono stati percorsi da questa contrapposizione fra partiti e anti-partito che talora ha assunto forme violente. (…). …nei giorni scorsi è stato diffuso su Internet un filmato di Hitler che nel 1932 adoperava contro i partiti della Repubblica di Weimar un linguaggio molto simile a quello grillino: “Noi non siamo come loro! Loro sono morti, e vogliamo vederli tutti nella tomba!”. (…). La difesa di una democrazia rappresentativa, come tale fondata sul pluralismo delle formazioni politiche, ma capace di dare voce nelle istituzioni alla partecipazione dei cittadini, nei prossimi anni si configura come l’unica risposta possibile ai diktat autoritari sempre in agguato, quando esplode la rivolta. (…). E siamo alle tribolazioni dell’oggi. Scriveva Nadia Urbinati sul quotidiano la Repubblica del 25 di febbraio – “Il populismo in Parlamento” - molto tempo prima di conoscere i risultati dello tsunami elettorale: La demagogia non si traduce facilmente in rappresentanza parlamentare. Vive di politica diretta e il suo più grande ostacolo è la normalità che segue il voto. Si adatta meglio ad una permanente campagna elettorale perché retta sull’espressività e sull’arte affabulatrice del leader, la ricerca dell’applauso e del contatto diretto con il pubblico. La demagogia si avvale di una retorica spesso aggressiva. E rinasce ogni qual volta la distanza tra chi sta dentro e chi sta fuori i luoghi del potere si allarga fino ad aprire una falla nella quale si fa strada questa forma alternativa di espressione politica, la cui linfa vitale sono emozioni di opposizione, come la rabbia o l’esasperazione. La demagogia prende energia dalla relazione di vicinanza del leader con la folla: egli porta la massa dove vuole e deve farsi portare da essa per meglio eccitarla e averla sua. La demagogia non vive di azione differita, vuole un rapporto fisico diretto, come quello tra Beppe Grillo e le folle che si assembrano ai piedi del suo palco inscenando una drammatizzazione delle vicende politiche più problematiche e delle difficoltà sociali ed economiche che le accompagnano. (…). E, come sorprendente profezia, inverata nelle cronache barbare di questi giorni, si scopre che, – nella felice intuizione fatta emergere nella pregevolissima riflessione -, la demagogia che riempie le piazze e i siti Internet ha il potere di attrarre consenso ma non ha probabilmente alcun interesse a creare stabilità nel dopo le elezioni. La sua forza (…) può essere di impedimento alla formazione di una maggioranza duratura. La stabilità del governo è del resto il nemico dei movimenti demopopulisti, la cui aspirazione sono piazze piene di scontenti (che restino tali). La democrazia consente di tenere i giochi aperti; a questo serve la regola della ciclicità elettorale, a mediare stabilità e mutamento, apertura del contenzioso e sua temporanea chiusura. È questa regola fondamentale che la demagogia mal digerisce e fa di tutto per sovvertire, per essere forza mobilitante permanente. Inoltre la demagogia non è rappresentabile; rabbia e indignazione sono emozioni difficili da tradurre in progetti politici condivisi. (…). Nel paese dell’amorale “tengo famiglia”, dell’inutile e presuntuoso “io l’avevo detto” concorrere nella democratica disputa elettorale non ha il fine che si configura da sempre in ogni angolo di mondo a democrazia se non compiuta almeno avanzata: quello di proporsi per il governo della cosa pubblica, per il raggiungimento del cosiddetto “bene comune”. No! Si concorre per far vincere la propria parte (a)politica, la propria confraternita, per stendere gli avversari come nel più becero – come del resto è stata l’ultima tornata elettorale - dei giuochi agonistici. Che sono tutt’altra cosa della democrazia e delle responsabilità alte che da essa ne derivano. È la cronaca amara di questi giorni.

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