"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 12 marzo 2013

Cosecosì. 46 “La Rete ha un’ideologia”.



La tristissima vicenda politica del bel paese non conosce sosta e non lascia intravvedere esito diverso alcuno. Tutto scorre per come essa, la tristissima vicenda, ha lavorato, tranciando e spianando affinché l’esito fosse uno ed uno soltanto. Da tempo vado sostenendo come la “scarnificazione” del pensiero sia il male peggiore nel quale possano cadere i singoli se non le intere comunità. Una “scarnificazione” del pensiero che è come portar via dall’osso gli ultimi brandelli della carne che resistessero alla macabra operazione. Poiché “scarnificare” il pensiero è operazione macabra così come scuoiare e strappare gli ultimi brandelli di muscolo. È ciò che è avvenuto nel bel paese. Una “scarnificazione” che è divenuta tappa successiva di quella geniale ed opportunistica operazione di semplificazione del pensiero che la dice lunga di come e di quanto gli strateghi dei mass-media, i cosiddetti guru, siano divenuti i padroni assoluti dei destini dei singoli se non di intere comunità. E se la comunità si allarga poi a dismisura, ogni oltre misura sensibile dall’umano, allora le cose precipitano verso un orrido oscuro che tutto ingoia come quegli abissi che la mente umana stenta a raffigurarsi convenientemente. È l’abisso della Rete. Ho orrore dell’abisso che la Rete induce. Poiché in quell’abisso vanno a sfracellarsi gli ultimi pensieri liberi. Forse l’azione di “scarnificazione” del pensiero da parte dei media di tradizione si sarebbe arrestata dinnanzi agli ultimi brandelli, alle ultime schegge di un libero pensiero. Qualche miofibrilla ne sarebbe sopravvissuta. Invece, l’affermarsi prepotente della Rete rende possibile la “scarnificazione” sino alle più minuscole fibre del pensiero sopravvissuto. Ha scritto Enzo Costa sull’ultimo numero del settimanale “Il Venerdì di Repubblica” – “L’Italia stregata da un nuovo mito: il semplificatore integrale” -: Oggi il Semplificatore Integrale è dappertutto. Essendo, innanzitutto, sul web. È lì che twitta compulsivamente come smaltire tutti i rifiuti, chi fare Papa, che fare per gli esodati e/o i padri separati. È su Facebook, a fronteggiare il caos a colpi di “mi piace” e “non mi piace”, con la stessa, primordiale logica binaria dell’antico “buono-no buono” di Andy Luotto a L’altra domenica. Solo che lui non lo fa per ridere: lo fa sul serio, senza un dubbio, una sfumatura, una subordinata. E cresce e si moltiplica, dentro e fuori la rete: è in tv, a dirci che la politica fa tutta schifo, che la colpa è solo della casta, o delle banche, o dei sindacati. È in politica, magari ci è appena entrato sotto una luccicante e trionfante insegna a cinque stelle, a dirci che basta eliminare tutti i politici. È nell’impresa, nelle professioni, nelle corporazioni, a dirci che la colpa è sempre degli altri, e mai la sua. E più si moltiplica e più ci contagia, e più diventiamo lui e brandiamo felici e feroci sentenze sommarie. Ciò che non cambia e resta è la complessità della società, della vita, del mondo. Ma se ne parla poco, pochissimo, solo in qualche bar di provincia o, molto raramente, dall’ortolano. Ecco perché la Rete fa tanto paura. Poiché va oltre la “semplificazione” della quale parla Enzo Costa nell’interessante Sua riflessione. Va oltre per “scarnificare” fino all’osso la polpa oramai rinsecchita del pensiero. Poiché è tutto un affannarsi dei guru a definire la Rete come “libera” – da cosa poi? Da chi? -, post-ideologica, anzi a-ideologica, secondo la tanto ideologizzata “morte delle ideologie”. “La Rete ha un’ideologia”. Ne ha scritto, con questo sotto-titolo, Massimo Adinolfi sul quotidiano l’Unità del 17 di maggio dell’anno 2012 – “L’ideologia politica di Facebook”. Ecco un angolo del mondo, quello virtuale per l’appunto, nel quale la tristissima profezia della “morte delle ideologie” non si è inverata, ma dove esse, le ideologie, vivono nelle viscere più profonde di esso, di quel lontano, ancora inesplorato ed indecifrabile mondo, e le impregnano nel profondo. Propongo di seguito, in parte, l’acuta riflessione di Massimo Adinolfi. C’è una speranza ultima che non vuole morire: che, per dirla ancora con Enzo Costa, “la complessità della società, della vita, del mondo” abbia la meglio alla fine di questo tortuoso, tormentato cammino.

(…). A (René n.d.r.) Girard (antropologo, critico letterario e filosofo francese n.d.r.) dobbiamo (...) una distinzione fondamentale per capire come funziona la creatura di Mark Zuckerberg. (…). Si tratta della differenza fra mediatore esterno e mediatore interno, e del modo in cui orienta il desiderio umano. Quel che viene mediato è infatti il desiderio, che si dirige su questo oggetto o su quello solo perché qualcun altro vuole questo o quello, rendendolo così desiderabile per noi. Ma, ecco il punto, un conto è se la mediazione è esercitata da un soggetto ben distante, magari irraggiungibile e idealizzato un mediatore esterno, appunto -, un altro è se invece si tratta di un soggetto a noi vicino, anzi prossimo, così tanto da essere proprio come noi. Un friend, insomma. Su Facebook è questo, infatti, che accade. Niente mediatore esterno, niente figure terze, niente relazioni “verticali” con un ideale lontano, ma una miriade di piccole relazioni orizzontali con individui insieme ai quali condividiamo interessi, scambiamo poke, linkiamo pagine. Sheryl Sandberg, Chief operating officer di Facebook, l’ha spiegata così: «Non importa se a 100.000 persone piace x: se alle tre persone a te più vicine piace y, a te piacerà y». Le tre persone più vicine stanno per l’appunto nella posizione di mediatori interni, e in grazia di questa posizione risultano maledettamente più credibili, diretti, autentici. In una parola, la sola che quando si fa business veramente conta: efficaci. Ora, se si trattasse solo di strategie di marketing e volumi di vendita, poco male: ci si potrebbe fare ben presto l’abitudine. Ma il fatto è che attraverso questa diversa strutturazione delle relazioni sociali passano profonde modificazioni dello spazio pubblico, e non basta quindi limitarsi ad osservarle con distaccato spirito scientifico. E, si badi, non si tratta nemmeno di rilevare soltanto fenomeni come la spudorata esibizione della vita privata (Facebook è zeppo di fotografie), dalla quale si può dire che quasi più nessuno è immune, o della infantilizzazione dei comportamenti, ossia di quello che Benjamin Barber ha chiamato il nuovo “ethos infantilista” del capitalismo contemporaneo. Il fatto è che in tutti questi casi viene palesemente contraddetto il profilo dell’uomo pubblico così come è stato definito in età moderna. La sfera pubblica andava infatti rigorosamente distinta dalla sfera privata o familiare della casa: un conto è l’oikos, un altro la polis. La modernità politica nasce anzi proprio quando riesce a spezzare definitivamente ogni parentela o commistione fra quegli spazi e le relazioni che in essi si istituiscono. Ma questa distinzione cede ormai il passo alla confusione, ed è sempre più difficile tracciare in rete i confini del pubblico e del privato. Quanto all’infantilizzazione degli stili di vita (e delle scelte di consumo): non contraddice forse la figura del cittadino autonomo e responsabile, qualificato giuridicamente e politicamente in virtù della raggiunta maggiore età? Ma ancora più significativa, perché gravida di conseguenze, è la caduta verticale del mediatore esterno: quella infatti era la posizione, il luogo terzo tradizionalmente occupato dalle figure istituzionali: dal maestro, per esempio, o dall’uomo politico. La crisi di autorità del mediatore esterno, il fatto che i nostri sguardi e i nostri desideri si rivolgono in rete molto più facilmente a mediatori interni non a figure idealizzate ma proprio a persone come noi di colpo rischia di invecchiare tutta la comunicazione istituzionale, ma anche di ridefinire i luoghi stessi di formazione e di esercizio della soggettività politica. Dunque un problema ce l’abbiamo, con Facebook. James Gibson, fondatore della teoria ecologica della percezione, diceva: chiediti non cosa c’è dentro la testa di colui che guarda, ma cosa c’è intorno. Se cambia il paesaggio, cambiano infatti pure le teste e i pensieri. E il paesaggio, indubbiamente, sta cambiando. Dopodiché non si dirà certo che per questo la democrazia è in pericolo, ma perlomeno non si esalteranno acriticamente le nuove forme della partecipazione online o della vita in diretta come straordinari avanzamenti democratici. Noi conosciamo storicamente la democrazia come luogo della mediazione e della rappresentanza, e certo non è detto che sia l’unica modalità possibile. Poiché però sappiamo anche, grazie a Girard, che assenza di mediazione esterna significa pure possibilità di contagio mimetico e innesco incontrollato di rivalità, abbiamo tutte le ragioni per nutrire simpatia per il nuovo, ma anche per coltivare qualche sana diffidenza e un po’ di spirito critico.

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