"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 15 marzo 2013

Capitalismoedemocrazia. 34 “L’autunno della finanza”.



Scrivevo il primo post di questa rubrichetta il primo di ottobre dell’anno 2011, quando ancora questo blog stazionava su di un’altra piattaforma della grande Rete. È che il binomio “capitalismo-democrazia” mi appariva sin da allora inscindibile ed avevo la consapevolezza che la deriva dell’uno avrebbe comportato la deriva dell’altra. A tanti mesi di distanza da quel post il professor Giorgio Ruffolo ha ripreso il temo ed ha provveduto, da par suo, per una valutazione della “crisi” in atto che, perdurando ancora, metterà sempre più a rischio le conquiste democratiche dell’Occidente. Titolo della riflessione del professor Ruffolo – sul quotidiano la Repubblica del 5 di marzo 2013 - “Capitalismo e democrazia”, per l’appunto, giusto per segnare un punto a favore delle mie personali preoccupazioni. Scrivevo nel post di quel lontano primo di ottobre dell’anno 2011: “…non possiamo aiutarvi ad irrobustire la ripresa poiché siamo impossibilitati a consumare di più avendo tanto, per non dire tutto; non contate più su di noi che abbiamo avuto ed abbiamo il superfluo invogliandoci a continuare a consumare il superfluo del superfluo delle nostre vite; rivolgete le vostre attenzioni a tutti coloro che sono stati tagliati fuori da questo godere, per anni e anni, ed approntate strategie affinché siano posti nelle condizioni di consumare come si è fatto sinora da parte di quel ceto medio di consumatori incalliti e senza rimorsi”. (…). Lungi da me la tentazione di voler suscitare nel prossimo mio “incubi” di sorta; ma sono convinto che in un tale momento di difficoltà sia giusto cogliere “l’occasione della crisi” per rivedere il nostro essere, “per proporsi seriamente una conversione del modo di produrre e di consumare, e dei modi di vivere”. (…). Colgo l’occasione per aprire una nuova sezione del blog, “Capitalismo&democrazia”, poiché sono convinto che dalla “crisi” globale siano messe in gioco non soltanto le ricchezze e/o le consistenze materiali delle persone ma le caratteristiche stesse, le idealità e le prerogative proprie delle democrazie per come esse ci sono pervenute sino ad oggi. Nella nuova sezione andrò a “raccogliere” tutte quelle letture che abbiano un’attinenza con le preoccupazioni in tal senso esternate da opinionisti e pensatori di sommo valore. È certo che in un qualsivoglia modo si uscirà dalla crisi presente. Il problema è come, soprattutto sul piano della realizzazione di un’equità sociale che sia presupposto irrinunciabile per democrazie sempre più compiute. Ha scritto Giorgio Ruffolo nella Sua dotta riflessione “Sono dolori se la ricchezza è un fantasma” pubblicata sul quotidiano l’Unità: Braudel (…) ha definito ‘autunno della finanza’ quella fase, attraversata da tutti i cicli storici capitalistici nella quale, a causa del declino dei rendimenti delle attività economiche reali (agricole, commerciali, industriali) le risorse in esse impiegate vengono ritirate dai loro impieghi e rese disponibili per essere investite in nuovi impieghi: funzione preziosa per la circolazione e lo sviluppo delle attività economiche, ma transitoria. Una volta svolto il suo compito, la finanza esce di scena e le risorse sono reinvestite in attività produttive. Siamo quindi nel bel mezzo di un ‘autunno della finanza’; l’ennesimo, stando alla autorevolissima opinione di Giorgio Ruffolo. Se ne uscirà di certo per via di quelle ciclicità delle crisi capitalistiche delle quali aveva parlato con sorprendente preveggenza il grande di Treviri. Uscirne per “riprendere come se niente fosse dal punto cui eravamo arrivati”? Mi sembra un azzardo incredibile, insostenibile. “L’occasione della crisi” c’è; basta coglierne le opportunità. “La crisi non è se non la velocità bruscamente vertiginosa che ha preso il guazzabuglio ingovernato che chiamiamo, ormai pigramente, capitalismo”. È questa l’amara conclusione di Adriano Sofri. Il binomio capitalismo-democrazia reggerà al vento impetuoso della finanziarizzazione globale che ha svuotato il “capitale produttivo” a favore di un “capitale finanziario” che non conosce regole e non possiede finalità sociale alcuna? Così scrivevo nel post di quel lontano primo di ottobre. A tutt’oggi la “crisi” ci sommerge e ci sballotta con i suoi violenti ed incessanti marosi. Trascrivo di seguito, in parte, la riflessione ultima del professor Ruffolo.

Due grandi forze si contendono la storia dell’Occidente: il capitalismo e la democrazia. Esse si alternano nell’egemonia prevalendo volta per volta l’una sull’altra e dando così luogo a cicli storici, l’ultimo dei quali è quello che viviamo dall’inizio del secolo passato e che comprende tre fasi: l’età dei torbidi, l’età dell’oro e l’età della controffensiva capitalistica. L’età dei torbidi è caratterizzata da forti conflitti tra i capitalismi nazionali ciascuno dei quali cerca di assicurarsi vantaggi decisivi sui rivali. Il risultato è una competizione selvaggia che ostacola la crescita comune. Età dell’oro. La definizione è di Hobsbawm. La caratteristica principale sta nel tentativo di raggiungere un “compromesso storico” tra capitalismo e democrazia che esalti le capacità di sviluppo di queste due forze senza provocare contraddizioni strutturali. Il principio fondamentale che regge il sistema è quello del libero scambio. Delle merci ma non dei capitali che sono assoggettati a controlli severi da parte dei governi nazionali. (…). Tuttavia l’equilibrio che ne deriva si rivela tutt’altro che “storico”. Esso è costantemente messo in dubbio dai tentativi delle forze capitalistiche di sottrarsi agli obblighi costituiti dai controlli statali. Questi tentativi conseguono un decisivo successo negli anni Ottanta del secolo scorso con la decisiva eliminazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti di ogni controllo sui movimenti internazionali di capitale che assicura a quest’ultimo una superiorità decisiva sugli altri fattori della produzione. La superiorità è realizzata attraverso la sua possibilità di spostarsi nello spazio secondo le convenienze assicurate dagli investimenti. Si potrebbe dire che l’arma fondamentale del capitale è la valigia. La sola minaccia di uno spostamento blocca le possibilità di far valere l’autonomia della politica. L’eliminazione di ogni ostacolo al movimento dei capitali determina un vantaggio decisivo del capitalismo sulla democrazia pregiudicando il relativo equilibrio che si era raggiunto tra queste due forze. Questo vantaggio si traduce in una forte diseguaglianza tra i redditi del capitale e quelli del lavoro. Una diseguaglianza che potrebbe tradursi in una debolezza della domanda, costituita soprattutto dai redditi di lavoro. A questa minaccia il capitalismo reagisce con una “mossa” decisiva: l’indebitamento, che permette di compensare il minore aumento dei redditi di lavoro. L’indebitamento diventa un fenomeno generale e sistematico al punto che il capitalismo viene definito da un economista come quel sistema nel quale i debiti non si pagano mai. Una caratteristica chiaramente insostenibile alla lunga e che si traduce prima o poi in una inevitabile crisi determinata da insolvenze, come nel caso dei cosiddetti subprime. (…). Questa condizione è affrontata, diversamente da ciò che accadde negli anni Trenta, con un colossale salvataggio finanziario dello Stato. Da fattore di perturbazione dei mercati — così definito dalla retorica liberistica — lo Stato diventa il salvatore del capitalismo. La logica del sistema tuttavia non muta. Esaurito il “salvataggio” il sistema torna alla logica dell’indebitamento, (…). La soluzione che l’ideologia liberistica imporrebbe, di lasciare che i fallimenti si compiano secondo l’inflessibile regola dei mercati, naufraga nella vicenda della Lehman Brothers: un fallimento che, se esteso all’intero contesto capitalistico, ne determinerebbe il crollo. La verità si crea alla fine il suo spazio. I debiti si pagano. Come si chiude la vicenda? Chi paga alla fine? Pagano i contribuenti e i lavoratori, sotto forma di aumento delle tasse e/o di contrazione dei salari. Al fenomeno dell’indebitamento si somma quello della “finanziarizzazione”. La ricchezza è rappresentata dall’emissione di “titoli” che da semplici indicatori della ricchezza finiscono per diventare ricchezza essi stessi. Una ricchezza letteralmente inesistente ma che costituisce la base di una “taglia” imposta alla comunità dal potere finanziario. Questa taglia è percepita dalle banche e soprattutto da una classe di intermediari finanziari che approfitta della sua posizione“strategica” nelle transazioni finanziarie. È così che il capitalismo industriale basato sulla realtà delle “cose” diventa capitalismo finanziario basato sulla rappresentazione dei “titoli”. (…). Il capitalismo non ammette (…) che il settore pubblico diventi un elemento decisivo dell’economia. Si profila una condizione nella quale il rallentamento della crescita determinato da politiche repressive della finanza pubblica si accoppia con l’iniquità. Due elementi che rischiano di suscitare una depressione di lungo periodo.

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