"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 28 gennaio 2013

Cosecosì. 41 "Così siamo diventati poveri".



(…). In una pausa tra i pedali Geo mi chiede: «Ma c’è la crisi economica?». Geo, che sa distinguere, ormai a nove anni, tra possibile, plausibile e probabile, si fa domande cui non so rispondere oltre un ovvio “sì”. In Italia si sta male? Dipende. È che forse non è facile capire come stanno gli italiani, cos’è il tenore di vita e quanto questo assomigli ad uno stipendio percepito. Lascio letture economicistiche e psicosociali ai veri esperti, io mi arrovello, come papà, a spiegare questa cosa al mio bambino. Certo, una casa di 70 metri quadri può costare 400 mila euro a Roma e a Milano e 150 in molte altre parti d’Italia, ma lo stipendio di una maestra elementare è sempre lo stesso, un’automobile costa la stessa cifra dappertutto e così pure le figurine dei calciatori, no il meccanico e il muratore però, e neanche andare a mangiare una pizza costa uguale. «Geo, al mare di Castrocucco “la margherita” la paghiamo 4 euro, qui in città 8 o 9». «Mamma mia!». «Mamma tua e pure povero papà, amore mio…». E neanche gli italiani se la cavano tutti allo stesso modo, ci sono quelli che giocano in borsa e quelli che non escono mai di casa, quelli che fanno tutto via internet, anche l’amore, soprattutto l’amore, e quelli che non hanno mai acceso un computer, ci sono quelli che non sanno pranzare senza avere la tv davanti e quelli che da anni il televisore l’hanno buttato via, quelli che dicono di averlo fatto, ma di nascosto sbirciano e se lo sciroppano. Scriveva così in una canicolare – molto probabilmente - domenica 7 d’agosto dell’anno 2011 il musicista e scrittore Andrea Satta. Lo scriveva sul quotidiano l’Unità col titolo “La grande crisi spiegata a mio figlio”. Ne ho ritrovato il ritaglio, prezioso. Mi rapisce la scrittura di Andrea Satta, così come mi rapisce il Suo semplice scrivere che è come un parlare calmo, ragionato, magari sottovoce. Senza strillare. Ma il Suo scrivere che parla scende in fondo, informa la coscienza delle “cose” del mondo, per come esse vanno, semplicemente tanto che al pari del Suo “Geo” lo si intende. È per questo che custodisco gelosamente i ritagli dei Suoi scritti. Per proporli poi a chi della lettura – che nel caso è conversazione pacata – se ne nutre. E continua nel Suo pezzo: Siamo il Paese dei cellulari accesi e indagati, il popolo che non vuol fare lavori umili, dicono, quello che riempie comunque i ristoranti, vedo, ma anche quello che, siccome non ci sono soldi, i tagli li fa alla cultura, alla scuola, alla sanità, ai bambini e mette i ticket sulle ricette. Ci sono gli italiani che hanno avuto tutto dai genitori, la casa, la macchina, qualche risparmio e 2000 metri di oliveto allo svincolo della statale, che poi c’è passato il piano regolatore e tutto è diventato edificabile (che conoscevano l’assessore e ora vale, vale, vale), e mamma e nonna stanno casa, tra la messa e la pasta della domenica. E nonno? Nonno s’è rincoglionito coi nipotini e la sera non esce mai e quindi non spende. Si vive con uno stipendio basso e ma si sta bene lo stesso. L’ Italia è una magia, dove ognuno s’è fatto gli affari suoi come nessun manager avrebbe mai saputo neanche immaginare. L’importante è non dovere rispondere ad un criterio universale perché allora salta tutto in aria. Quindi lasciateci fare. Amore mio, non resta che pedalare… Ha scritto di recente Concita De Gregorio su la Repubblica del 24 di gennaio - "Così siamo diventati poveri" -: I numeri non rendono l’idea. Siamo assuefatti, bombardati. Non li tratteniamo neppure il tempo necessario perché si traducano in un pensiero. Sono le storie che parlano. Quelle sì, quelle somigliano tutte a qualcosa che sappiamo. La commessa del super, il fornaio dove vai a comprare le rosette, il ragazzo che ha l’età di tuo figlio, il padre di mezza età, la madre. Questa è l’Italia, questi siamo noi. Narcotizzati da una campagna elettorale che discute di pensioni e di tasse, di esodati e di aliquote: un mondo politico che parla, provando a farsi votare, a chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto. Ma quasi la metà del paese non ha lavoro, lavora al nero, ha redditi sotto i mille euro. La media delle famiglie  italiane guadagna meno di ventimila euro l’anno, dicono i dati ministeriali, con buona pace delle discussioni sulla patrimoniale per chi ha redditi sopra il milione o il milione e mezzo. C’è differenza fra ventimila e un milione, una differenza così grande che genera, in chi non trova ascolto, rabbia, ostilità, fragilità, disillusione. Siamo tornati poveri, dicono i dati Istat. Più di otto milioni di italiani, una famiglia su dieci spende circa mille euro a testa al mese, la cifra sotto la quale l’Istat stabilisce la soglia di povertà  relativa. Indietro di 27 anni. Ma nemmeno questo rende l’idea perché ormai sono anni che separarsi è diventato un lusso da ricchi, che il ceto medio è scivolato verso l’indigenza, che i padri che pagano gli alimenti dormono in macchine e vanno a mangiare alla Caritas. La novità, oggi, (…), è che nell’indifferenza diffusa comprare a metà prezzo il pane di ieri, fare la spesa al super di carne in scadenza e quindi in saldo, nascondere la laurea per trovare un lavoro da 800 euro o laurearsi per poi servire ai tavoli di un pub, al nero, è diventato assolutamente normale. Tutto intorno è così. L’ascensore sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal malaffare e dal malgoverno. Torna indietro. Non sale: scende. I figli hanno un destino peggiore dei padri, il giovane laureato in Legge, figlio di operai del Sud, ha vergogna a dire che non sa che farsene del suo titolo, non sa come spiegarlo ai genitori. Non va avanti, non può tornare indietro. È il lavoro che manca. È l’unica cosa di cui parlare, la sola di cui una campagna elettorale dovrebbe occuparsi: offrire un progetto per restituire lavoro al Paese. Senza libertà materiale non c’è libertà politica né democrazia. Il resto sono chiacchiere. Lo ha scritto Concita De Gregorio in un dossier nel quale ha “tipizzato” le figure di una umanità sofferente, in un mondo che è tornato povero. Quello stesso mondo che, nel bel paese, si era fatto abbacinare ed abbindolare da un quindicennio di mirabolanti promesse di ricchezza e di quant’altro possibile per tutti sotto questo cielo, tanto che, per dirla con un’idea espressa magistralmente da Goffredo Fofi, la cosa più straordinaria che quel neoliberismo sia riuscito a realizzare nella sua impetuosa avanzata è stata che i poveri abbiano amato i ricchi, svisceratamente, sull’idea balzana che tanto le “classi” – sociali intendo dire – non ci sono più. Amarli al punto da accettarne le vite dissolute, senza anima, senza responsabilità sociale. Ora, scrive Concita De Gregorio, “l’ascensore sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal malaffare e dal malgoverno” e l’appartenenza alle “classi” diviene palese anche ai più sprovveduti che, del mito della ricchezza a buon mercato, della vita gaudente senza impegno e responsabilità, si erano lasciati lusingare e catturare. Del dossier di Concita De Gregorio proporrò – nel layout di questo blog - le sei storie sofferenti di un popolo socialmente ed economicamente regredito, tornato “indietro di 27 anni” nelle sue conquiste economiche e sociali, e perché no, nelle sue conquiste dei cosiddetti inalienabili “diritti” di cittadinanza, che fanno di una moltitudine un popolo cosciente della sua storia e del suo divenire. Oltre certi limiti, il buio.

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