"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 24 gennaio 2013

Cosecosì. 40 Il progresso è fallito.



(…). Le visioni della politica e dell’economia si sono basate sull’idea, che risale al settecento e all’ottocento, del progresso come legge ineluttabile della Storia. Questa idea è fallita. Soprattutto, è fallita l’idea che il progresso segua automaticamente la locomotiva tecno-economica. È fallita l’idea che il progresso sia assimilabile alla crescita, in una concezione puramente quantitativa delle realtà umane. Negli ultimi decenni la storia non va verso il progresso garantito, ma verso una straordinaria incertezza. Così oggi il progresso ci appare non come un fatto inevitabile, ma come una sfida e una conquista, come un prodotto delle nostre scelte, della nostra volontà e della nostra consapevolezza. Così scrivevano Edgar Morin e Mauro Ceruti nell’editoriale “Il progresso è fallito: ora una nuova civiltà”, apparso sul quotidiano l’Unità del 13 di settembre 2012. Un’idea del “progresso” che immancabilmente viene associata all’idea della tanto invocata “crescita”. “Crescita” dei consumi, “crescita” del superfluo almeno per una parte dei terrestri. Senza un’idea di redistribuzione, su scala planetaria, delle risorse naturali e dei vantaggi che il depauperamento di quelle risorse, appartenenti all’intero genere umano, assottiglierà sempre più per quella parte dell’umanità che è ancora ben lontana dalla tavola imbandita dei consumi. C’è nel pensiero dei due filosofi l’invocazione per “una nuova civiltà”, che sia “ora” prima che il disastro ambientale faccia il suo inarrestabile, disastroso percorso. È di questi giorni la notizia della probabile/imminente fine della cosiddetta civiltà degli “yangrou chuan”, gli adorati spiedini, che giorno e notte sfrigolano sopra griglie improvvisate lungo ogni strada del Paese. Leccornie popolari, per tasche di massa, imputate ora di una colpa imperdonabile: dopo secoli, il governo della seconda economia del mondo ha scoperto che, arrostendo sul carbone, inquinano. La notizia giunge dall’opificio più grande del pianeta Terra, la Cina, quello che un tempo era denominato l’impero celeste. A darcene contezza è l’attenzione sempre viva di Giampaolo Visetti per tutto ciò che avviene in quel laboratorio nuovo del capitalismo dei consumi. Il Suo dossier, “Smog la sindrome cinese”, è stato pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 22 di gennaio. Gli “yangrou chuan” inquinano la Cina. Vanno a carbone le fornacelle per gli spiedini dei cinesi. Come tutto ciò che, al di là della grande muraglia, serve per fare andare avanti l’opificio più grande del pianeta. Impossibile fermarlo. Continua Visetti: Si cela spesso del comico, nel tragico. E così, per impedire che un numero troppo imbarazzante di cinesi crepi a causa dello smog, assieme al bando contro il barbecue sbucano dalle nebbie metropolitane altre due singolari esortazioni: impedire agli scolari di passare la ricreazione in cortile e fare in modo che gli anziani, tappati in casa, non respirino vicino alle finestre. Per denunciare un’orrenda verità: …le griglie costrette a spegnersi, come i bambini chiusi in classe e gli altri esseri viventi impegnati a contendersi le ultime maschere anti-gas, rivelano improvvisamente alla nazione che si sta prendendo il secolo, una parte essenziale di ciò che continua a significare il successo di quell’aspirazione che convenzionalmente chiamiamo crescita: il sacrificio della vita di chi viene incaricato di promuoverla. Oggi il “sacrificio” di una vita sana diviene il prezzo altissimo da pagare per una “crescita” che non rappresenta più un “progresso”. Si è ancora in tempo per frenare lo sprofondare nell’abisso? Scrive ancora Visetti, nella Sua corrispondenza che ha tutto l’amaro sapore di quei veleni dei quali ci da notizia: Da dieci giorni Pechino, Shanghai, Chongqing e decine di metropoli industriali risultano scomparse dentro nuvole nere, grasse di olii che impregnano i capelli, di acidi che corrodono la gola e di polveri che bruciano gli occhi. Lo smog, che fino all’anno scorso le autorità chiamavano nebbia, è tale che centinaia di voli vengono cancellati per “invisibilità della pista”. Poiché l’imperativo della “crescita” quantitativa non lascia scampo alcuno anche se quei lapilli che i tecnici indicano con l’asettica sigla PM2.5, ossia il particolato mefitico di un diametro fino a 2.5 micron, a Pechino hanno raggiunto la vetta inviolata di 993 microgrammi per metro cubo. È una quota quaranta volta superiore al limite massimo stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità, settantacinque volte più alta dei limiti imposti negli Usa. Gli scienziati avvertono che per non deteriorare la salute, la concentrazione di queste particelle deve restare sotto il livello venti. Nella cecità di un mondo che ha regolato la sua esistenza sulla cognizione della “crescita” per quantità sempre maggiori e che ha messo al bando la “qualità” dell’esistenza della vita sul pianeta Terra sfuggono ai più “i dati della Banca Mondiale (che) mostrano poi che nel 2009 lo smog è costato alla Cina il 3,3% del reddito nazionale, schizzato a quasi il 5% lo scorso anno. La gente fa esplodere gli ospedali pubblici con malattie ai polmoni, al cuore, alla pelle e agli occhi. Impiegati ed operai si assentano da uffici e fabbriche, con i veleni sparati nell’atmosfera accusati di una perdita del 7% della produttività. Al resto dei danni economici ci pensano gli incidenti stradali, la cancellazione dei voli e perfino una durata inferiore di edifici e infrastrutture, valutata in media dieci anni. Può apparire spaventoso, ma nel nuovo paradiso di grattacieli, fabbriche e ferrovie ad alta velocità, l’inquinamento si vendica rosicchiando anche il cemento che dovrebbe custodire merci e persone”. Ma è nella logica del capitalismo la ricerca di sempre nuove “terre vergini” da sfruttare convenientemente nella cecità più assoluta. Ma il disastro è dietro l’angolo. Ed il popolo di quello che è stato l’impero celeste non ha voglia di discostarsi da quella tavola imbandita che per lunghissimo tempo è apparsa solo come un miraggio. Ma urge la “civiltà nuova” preconizzata da Morin e Ceruti. Non più cieca e sorda ai problemi ambientali. Scrivono in quel loro lavoro i due filosofi: Altrettanto discutibile è la nozione tradizionale di sviluppo, definita in una prospettiva unilateralmente tecno-economica, ritenuta quantitativamente misurabile con gli indicatori di crescita e di reddito. Ha assunto come modello universale la condizione dei Paesi detti appunto «sviluppati», in particolare occidentali, alla quale si dovrebbero ispirare tutti gli altri Paesi del mondo (…). Così si è arrivati a credere che lo stato attuale delle società occidentali costituisca lo sbocco e la finalità della storia umana stessa, trascurando i tanti problemi drammatici, le tante miserie, i tanti sotto-sviluppi, non solo materiali, provocati dal perseguimento degli obiettivi di una crescita tecno-economica fine a se stessa. Ma le soluzioni che volevamo proporre agli altri sono diventate problemi per noi stessi. (…). Allo sfruttamento economico, contro il quale hanno sempre lottato i sindacati, oggi si aggiunge un’ulteriore alienazione in nome della produttività e dell’efficienza. Abbiamo urgente bisogno di una politica di umanizzazione di quella che è ormai un’economia disumanizzata. Se si vogliono seriamente realizzare gli obiettivi di «sostenibilità» e di «umanizzazione», non basta spianare la via con qualche levigatura: bisogna cambiare via. (…). …la necessità di cambiare via diventa sempre più urgente, nel momento in cui il dogma della crescita all’infinito viene messo drasticamente in discussione dal perdurare della crisi economica europea e mondiale, dai pericoli prodotti di certo sviluppo tecnico e scientifico, dagli eccessi della civiltà dei consumi che rendono infelici gli individui e la collettività. (…). E per imboccare una via nuova bisogna concepire una nuova politica economica che possa contrastare l’onnipotenza della finanza speculativa e mantenere nello stesso tempo il carattere concorrenziale del mercato. (…). Non ci sono alternative. A chi si strappa le vesti invocando la “crescita” per come la si è avuta dal secolo diciannovesimo in poi la risposta chiara è forte dev’essere una: a quale prezzo? Chiude la Sua corrispondenza Giampaolo Visetti annotando: Il segnale è che non solo il costo della crescita ha superato i suoi ricavi, pregiudicando la sopravvivenza di chi ha la missione di produrre, (…). Nessuno stupore, ieri sera, quando il telegiornale, dopo i drammatici dati su un’altra giornata con 420 microgrammi di PM 2.5 per metro cubo a Pechino, ha trasmesso un servizio sulla “guerra per l’energia” nel Pacifico e uno sul boom dell’hitech nell’ex distretto manifatturiero di Canton. Lo smog cambia la Cina e la Cina, provando a pulire l’informazione con lo sporco del vento, vuole che il resto del mondo ne sia consapevole. Respirare, anche in Asia, oggi costa. C’è davvero qualcosa nell’aria, sopra la Città Proibita: non solo la rinuncia alla delizia di uno spiedino. Che non siano “quelli” dell’impero celeste a mostrarci la via per una “crescita” diversa e più responsabile, insomma per “una nuova civiltà”? La loro “civiltà”, del resto, ci ha preceduti di tanto sulla via delle invenzioni e delle applicazioni tecnologiche.

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