"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 4 ottobre 2012

Sfogliature.11 Il mondo e la sua rappresentazione.



Mi dice: - Ha telefonato D. -. Taccio. Da per scontato, forse, un certo mio disinteresse all’argomento? Incalza: - D. ha visto alla televisione l’incendio -. Abbozzo una risposta onomatopeica: uhm! È che sul luogo dell’incendio noi c’eravamo. D. l’aveva visto solo alla televisione. Aggiunge: - E noi non abbiamo visto nulla -. Provo a replicare: - Ma come non abbiamo visto nulla, se siamo sul posto? -. La televisione rende tutto più reale. Eppure il vastissimo incendio che ha lambito il centro abitato di ****** ha ricoperto strade, piazze e piazzette, terrazze e balconi di un velo di scorie che si è dovuto spazzare con fatica. E per chi si fosse avventurato per le vie di ***** è stato d’obbligo dismettere magliette e quant’altro impregnati com’erano dall’acre odore dell’incendio. Il reale vissuto direttamente è ben poca cosa rispetto a ciò che la televisione trasmette. Lo ha detto la televisione! Quante volte ci è toccato ascoltare tale apodittica affermazione. Quel che avviene all’interno del “piccolo mostro” è più reale anche della realtà vissuta. Ritrovo, alle pagine 793 e 794 dell’e-book del “cavalierdelamancia”, il post numero ventinove – del 4 di febbraio dell’anno 2009 – che ha per titolo “Il mondo e la sua rappresentazione”: che abbiano ragione i cosiddetti post-modernisti che il reale non esiste ma ne esiste solamente una individuale interpretazione? Ripropongo di seguito l’interessante post allora inserito nella rubrichetta “Mediaculturapotere”.

Ho ammesso più volte la mia assoluta incompetenza in materia. Ma, pur facendo questa mia franca e doverosa ammissione, sento la necessità di pormi e di proporre inquietanti interrogativi. E di proporre doverosamente alla riflessione letture importanti che siano illuminanti. È lo scopo primo di questa rubrichetta senza pretese. L’interrogativo di fondo, alla luce delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze – ma non per tutti i cervelli della politica del bel paese valgono ahimè le ultime acquisizioni di quelle strabilianti scoperte – che affermano essere il cervello in continua e costante evoluzione e trasformazione negli individui umani, sfatando così una radicata convinzione della sua immodificabilità dopo la maturità raggiunta, l’interrogativo di fondo dicevo è in quale misura e per quali vie neuronali e per quali inconsuete sinapsi la comunicazione tra gli esseri umani possa determinare le ammesse ed ora riconosciute trasformazioni ed evoluzioni delle strutture cerebrali nell’arco dell’intera esistenza degli umani. Del resto, i fatti della storia stanno lì a stimolare inquietanti interrogativi. In quale misura la comunicazione di massa debitamente strutturata e magnificamente orchestrata ha condizionato un popolo tutto, quello tedesco per la storia – per tacere pietosamente di un altro popolo, si fa per dire, aduso al trasformismo e pronto a saltare sul carro del vincitore del momento -, in quale misura quella comunicazione ha favorito o indotto la  trasformazione delle persone di quel popolo grande in carnefici e vittime al contempo della tragedia nazista? Ecco il punto primo. E sì che allora si era nel bel mezzo del ventesimo secolo, e non era pervenuta, la comunicazione di massa, alla sue attuali dimensioni intrusive e pervasive nella vita degli individui singoli e delle collettività planetarie. Io non ho competenza in materia. Posso solo fare tesoro di esperienze, ahimè banali anzi banalissime, e riproporre le stesse non certo con la cifra della scientificità. Affondo nei miei ricordi scolastici, d’insegnante. E di quando sollecitavo i bimbetti di una prima classe, dell’allora scuola media, sulle loro conoscenze lessicali. E di come una bimbetta di allora, alla mia richiesta di declamare il nome di un pesce di loro conoscenza, mi rispondesse “bastoncini findus”; o quando, volendo accertare quelle loro competenze linguistiche sollecitando loro a declamare parole che iniziassero con la lettera “d”, mi sia sentito rispondere “super dash”! La lettera “d” richiesta vi era contenuta, ma l’esito della esposizione incontrollata e nella preadolescenza ai pervasivi mezzi di comunicazione e di persuasione occulta e di massa aveva segnato un punto a suo favore. Avevo di già raccontato questa banalissima mia esperienza in uno dei post della rubrichetta “Dell’educare”. Da par Suo ne scrive, con dotta padronanza, Umberto Galimberti in una Sua corrispondenza pubblicata su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica” col titolo “Il mondo e la sua rappresentazione”. Ove si parla di un mondo svuotato per l’appunto della sua intrinseca realtà, per sovrapporvi o meglio sostituirvi il mondo reso artificiosamente reale e quindi onnicomprensivo del piccolo schermo e dei mezzi di comunicazione in generale.

“I media, istituendoci come spettatori e non come partecipi di un'esperienza o attori di un evento, ci consegnano messaggi che veicolano eventi che hanno in comune il fatto che noi non vi prendiamo parte, ma ne consumiamo soltanto le immagini. Da sempre, ma in modo esponenziale oggi, i fatti non sono significanti in sé, ma dipendono dalla risonanza che i media concedono loro. Questa risonanza dipende a sua volta dall'interesse del pubblico (di solito più incuriosito dal gossip che dagli eventi che turbano il sentimento sociale) e dalla convenienza politica di dare risalto o meno a un evento. Da questa sequenza risulta che la convenienza politica viene al primo posto, l'interesse del pubblico al secondo, e il fatto in sé e per sé all'ultimo posto. Quando il mondo si risolve nella sua rappresentazione, codificata dalla politica e dai media (questi ultimi proni all'interesse, quando non alla semplice curiosità del pubblico), chi vi assiste non ha voce in nessuno degli avvenimenti rappresentati. Questo non aver voce fa di ciascuno di noi un semplice spettatore che, pur avendo accesso a tutti gli avvenimenti del mondo, lo ha a quella distanza dove qualunque cosa accada lo lascia inviolato, per l'assenza di un reale contatto con i fatti, riassorbiti interamente nella rappresentazione mediatica. Una volta che un evento è risolto nella sua rappresentazione mediatica, la cui confezione dipende dalla convenienza politica, qualsiasi notizia, qualsiasi informazione, soprattutto quando è articolata in immagine, indipendentemente dal suo valore veritativo, segnala il punto di vista da assumere per prendere in considerazione l'evento, per cui noi non abbiamo mai a che fare con l'evento, ma sempre e solo con il suo allestimento. E allora ciò che informa codifica, e l'effetto-codice diventa criterio interpretativo della realtà, modello induttore dei nostri giudizi, che poi ci portano a reagire all'evento come abbiamo appreso dal modello induttore. (…). Ci veniamo così a trovare in una condizione analoga a quella descritta da Günther Anders in quel racconto per bambini dove si narra questa storia: - Il re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio sul mondo; perciò gli regalò carrozza e cavalli: 'Ora non hai più bisogno di andare a piedi' furono le sue parole. 'Ora non ti è più consentito di farlo' era il loro significato. 'Ora non puoi più farlo' fu il loro effetto –.“

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