"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 16 ottobre 2012

Sfogliature. 12 Che vuol dire che una cosa è pubblica?



Scriveva (1977 ) quel grande Maestro che è stato Norberto Bobbio in «Italie ’77. Le mouvement et les intellectuels» : (…). Lascio volentieri ai fanatici, cioè a coloro che vogliono la catastrofe, e ai fatui, cioè a coloro che pensano che alla fine tutto si accomoda, il piacere di essere ottimisti. Il pessimismo oggi, mi sia permessa ancora questa espressione impolitica, è un dovere civile. Un dovere civile, perché soltanto un pessimismo radicale della ragione può destare qualche fremito in coloro che, da una parte o dall’altra, mostrano di non accorgersi che il sonno della ragione genera mostri. (…). Ed il Suo pessimismo ha motivo e ragione d’essere oggigiorno, gli sopravvive come amorevole lascito Suo, nello spaventevole spettacolo che, dalle Alpi a Capo Lilibeo il bel paese offre all’intero globo terracqueo. Poiché dal suo orizzonte, intendo dire del bel paese, è definitivammente scomparso il senso proprio e profondo di cosa possa intendersi, di cosa voglia « dire che una cosa è pubblica ». Ripesco nel mio e-book, alle pagine 712 e 713, un post del 15 di luglio dell’anno 2006 che ripropongo nella sua sempiterna attualità.

Mi è capitato solo l’altro giorno, al mio rientro dalla solatia isola di Trinacria, di utilizzare come pubblico mezzo di trasporto i famosi traghetti dello stretto. Sistemati comodamente nel salone grande della nave, ben refrigerato giusto per contenere il caldo afoso della stagione, si deplorava con la mia consorte il poco corretto atteggiamento di due gaglioffi che ineducatamente stendevano le estremità dei loro arti calzati sulle poltrone loro prospicienti. All’improvviso un piccolo miracolo di efficienza: un addetto della nave compariva inopinatamente e redarguiva con energia i gaglioffi in questione. Straordinario! Inatteso! Inimmaginabile! Non ci era mai capitato di assistere a tanto zelo da parte di un addetto alla cosa pubblica. Ma più straordinario ancora è stato vedere un altro passeggero, più a noi prossimo, stendere le sue estremità calzate sulle prospicienti poltrone non appena sparito lo zelante addetto. Una sfida! Per non tediare più di tanto, la questione si è risolta al ricomparire dell’addetto e al pronto ritiro in posizioni più ammodate degli arti del balordo di turno. Al capitolo ventinovesimo, “Danni da tutti”, del bel libro di Raffaele Simone “Il paese del pressappoco”, fonte inesauribile o quasi della rubrichetta “Mal d’Italia”, si discetta per l’appunto di cosa pubblica e di come la stessa venga percepita e considerata dagli abitatori del bel paese.

“…che vuol dire che una cosa è  pubblica? Significa che non appartiene al singolo individuo ma alla collettività, quindi che è di tutti. Ma in che senso è di tutti? La risposta a questa domanda è fondamentale per capire il Mal d’Italia. Vedo almeno due interpretazioni possibili. Una cosa è di tutti nel senso che ognuno può farne quel che gli apre: quindi nel senso che è esposta all’arbitrio di ciascuno, perfino al rischio di essere distrutta nel corso del suo uso. Ma può esser di tutti anche nel senso che ognuno può farne un uso libero, ma limitato dall’obbligo di non danneggiarla e di lasciarla integra perché anche gli altri la usino. Si converrà che l’interpretazione giusta è la seconda. E lo è, se non altro, per un motivo pratico: è l’unica che lasci che il bene pubblico sopravviva all’uso che ne viene fatto e possa offrirsi a usi ulteriori da parte di altri, più tardi e sempre ancora. Quindi, non prevede la distruzione del bene a seguito del suo impiego, ma ne contempla la sopravvivenza e il prolungamento nella pubblica fruizione. In questo senso, direi, quell’interpretazione è più intelligente della precedente. Ma, ahimè, l’accezione di pubblico che prevale da noi è la prima: una cosa pubblica può essere usata da tutti senza limiti e può finanche non sopravvivere a questo impiego e rimanere distrutta nell’uso. Questa peculiare interpretazione, che costituisce uno dei cardini del Pensiero Italiano, è dovuta al fatto che, mancando l’alleanza, prevale lo spirito di famiglia. Nei paesi in cui manca l’alleanza, il senso della collettività è basso o nullo e scende in proporzione anche il significato di ciò che possiamo trattare come patrimonio collettivo. ‘La mancanza di una sensibilità comunitaria degli italiani – di una idea di patria se si preferisce – non si è rivelata né consolidata nei cinquant’anni trascorsi’ assicura un libretto recente (“Il bisogno di patria” di Barberis n.d.r), ma ‘ chiama in causa almeno cinque, se non quindici secoli’. Quindi è una storia vecchia di cui noi portiamo le conseguenze. Ma l’antichità del dato di fatto ci assolve e consola solo in minima parte. (…). Per questo da noi è nato un concetto di bene pubblico fortemente anarchico e dissipativo, coltivato in specie dall’ampia fascia di praticanti del pensiero plebeo. Ciò che è pubblico ‘all’italiana’ si caratterizza quindi per due tratti che lascerebbero attonito uno straniero e darebbero parecchio da fare ai filosofi del diritto. Anzitutto, il bene pubblico è esposto al rischio permanente di ricevere danni da tutti, quindi è (in senso letterale) comunemente danneggiabile. Capita spesso infatti, quando si richiama qualcuno al rispetto della proprietà pubblica, di sentirsi rispondere: - Non è tuo, è di tutti, quindi ne faccio quel che voglio! – Battute volgari di questo genere offrono la migliore ermeneutica di questa proprietà costitutiva. In secondo luogo, il bene pubblico è liberamente appropriabile, perché viene facilmente assimilato alla proprietà privata, nella quale spesso trapassa per una semplice confusione dei confini. Il paralogismo sottostante è semplice: se è di tutti è come se fosse di nessuno, quindi può diventare mio. In questo modo gli italiani mostrano di creder davvero che ‘dal punto di vista della razionalità individuale il bene pubblico non esiste, è un’entità che trascende il mondo dell’esperienza individuale‘. Chi glielo fa fare, a loro, di curarsi di qualcosa che non esiste neppure? ‘I beni pubblici, essendo al di là di questo mondo, sono perseguiti solo dagli ipocriti o dai folli’, non dai furbi che noi siamo. (…)”.

È sempre il pessimismo del grande Maestro che ha ispirato Carlo Galli nello scrivere – su la Repubblica del 19 di luglio 2012 - “Lo scandalo del Porcellum”?  (…). La pretesa di garantire tutto e tutti – di neutralizzare la volontà dei cittadini, di minimizzare l´esito delle elezioni, poiché non le si può proprio evitare – porta con sé naturalmente la ridda dei veti incrociati e in ultima istanza la paralisi: (…). È, questa, una nuova edizione della logica della tela di Penelope, fondata sul meccanismo del "rilancio": poiché non si può dire semplicemente No al cambiamento, è meglio spostare il confronto ad altezze del tutto impraticabili, (…) che è come rinviare il fattibile a quando sarò realizzato l´infattibile. Ovvero, è fingere di darsi molto da fare perché nulla cambi. (…). Il ceto politico è una parte importante delle élite di un Paese. Il fatto che – nella sua maggioranza – non sappia affrontare alcun rischio, né assumersi alcuna responsabilità, né riconoscersi in un orizzonte generale a cui chiamare il Paese, ma pensi solo (e malamente) a se stesso, non è che una parte del nostro più grave problema: l´assenza (o la presenza minoritaria) di élite degne di questo nome, lo sfrangiarsi dell´establishment in innumerevoli cordate che parlano ormai solo il dialetto locale delle categorie e ignorano la lingua nazionale della politica. (…). Per dirla a muso duro, han ben poca coscienza di come possa definirsi la “cosa pubblica”. Io resto irrimediabilmente “pessimista”. E non per un atteggiamento snobistico, per paura delle “élite”. Se sono queste le “élite”, come non esserlo? Che il grande Maestro sia stato un impolitico?

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