"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 11 settembre 2012

Storiedallitalia. 24 L’infelicità degli italiani.



Scrive Massimo Giannini nel primo numero settembrino – i refoli più freschi di questa stagione non smorzeranno il “caldissimo” dell’autunno incipiente – del settimanale “Affari&Finanza”: (…). È un vezzo ricorrente. Quando sono a corto di idee e di risorse, i governi propongono “patti”. Patto sociale, patto per la crescita, patto tra le generazioni. Ce n’è per tutti i gusti, nel vasto campionario della “patto-mania” italiana. Ora va di moda il “patto per la produttività”. L’ha lanciato Corrado Passera. Non che il ministro dello Sviluppo abbia sbagliato. La produttività è il vero “spread” che ammorba il Paese. Un costo del lavoro per unità di prodotto che cresce da almeno dieci anni, mentre quello della Germania nello stesso periodo si riduce, è una zavorra che schianta il Sistema-Italia. Ma quando si propone un patto si ha il dovere di dire cosa ci si vuole metter dentro. E allora. Cosa può mettere sul tavolo il governo di Monti, che non ha un euro da spendere? Cosa può mettere sul tavolo la Confindustria di Squinzi, che al discorso di investitura ha tuonato il suo no ad ogni forma di cogestione alla tedesca? Cosa può mettere sul tavolo la Cgil di Camusso, che continua a invocare sgravi sui salari che aiutano ma non risolvono? I patti, senza fatti, sono semplici slogan. Il primo a proporre un “patto tra i produttori” fu Togliatti nel ’46, nel famoso discorso di Reggio Emilia su “Ceto medio e Emilia rossa”. Di lì non ci siamo più mossi. È che anche “lor signori”, i cosiddetti tecnici, hanno imparato, dai politici del politichese imperante e dell’antipolitica (la “politica buona” auspicata da Bersani fatta però con altri mezzi), a procedere per proclami. Ne avevamo avuta esperienza dirompente nell’era del signore di Arcore. Sembrava che fosse stata messa da parte. Non è vero! Leggo sui quotidiani di stamane: 180.000 lavoratori a rischio di perdere il lavoro; il famigerato Pil, sull’altare del quale tutto si sacrifica, come nei più tragici, cruentissimi riti propiziatori dell’era arcaica della (in)civiltà umana, crolla del 2,6% nel 2012; intanto al ministero si tengono aperto 150 (!) tavoli. Per farne che cosa? Intanto qualcuno intravede la luce in fondo al tunnel: ché non sia quella di un treno in corsa verso un probabile deragliamento sociale? Intanto qualcuno vede la “ripresa” di già avviata: ma per chi? Domande oziose in questo smemorato paese. A quando il risveglio? Leggo sul numero del 1° di settembre della rivista “Left” a firma di Manuele Bonaccorsi – “Obiettivo fallito” -: (…). Niente pareggio di bilancio nel 2013, nessuna riduzione del debito. (…). Quindi, gli impegni europei – per perseguire i quali Monti era salito al Quirinale e aveva ricevuto la fiducia larghissima del Parlamento – non potranno essere rispettati. (…). Basti pensare che a dicembre del 2011 Monti immaginava per il 2012 una diminuzione del Pil dello 0,4 per cento. Ad aprile i professori stimavano un -1,2. Ma ad agosto l’Istat certifica per il 2012 un drammatico -2,5 per cento. Non è poca cosa. Ogni punto di Pil vale circa 20 miliardi. (…). La cura ha fatto molto più male della malattia. Dopo i 145 miliardi recuperati da Berlusconi (le due manovre d’emergenze estive di Tremonti, datate 2011) i tecnici hanno tagliato la spesa e tassato gli italiani per 63,2 miliardi (tra manovra Salvaitalia e spending review). Le manovre hanno causato una riduzione del reddito del Paese di circa 20miliardi. Rendendo così irraggiungibili gli obiettivi per i quali tagli e tasse erano stati escogitati. Sembra una maledizione, ma non lo è. L’equazione è semplice: più tasse e meno servizi uguale cittadini più poveri. Quindi meno consumi, quindi meno produzione, meno reddito, più debito. (…). Nel Def dell’aprile 2012 il governo stimava di raggiungere un disavanzo nei conti pubblici dello 0,2 per cento sul Pil, cioè un sostanziale pareggio di bilancio. E nel 2013 vaticinava addirittura un avanzo di quasi un punto di Pil, lo 0,8 per cento. Invece, sostiene il Cer, che usa uno dei più validi modelli econometrici disponibili, il 2012 si chiuderà con un -1,5, e il 2013 con uno -0,4. Si tratta, però di dati “corretti”, in linguaggio tecnico si dice “saldi strutturali”. Secondo una convenzione usata nell’Unione europea i governi possono stimare i loro dati macroeconomici depurandoli dal ciclo negativo. Un trucco bello e buono, seppur perfettamente legale. Perché la realtà è molto più grave. Il 2012, secondo il Cer, si chiuderà con un deficit del 2,4 per cento, e nel 2013 si rimarrà al -1,6. (…). Nonostante l’Imu, l’aumento dell’Iva, la miriade di nuove tasse, il taglio delle pensioni, il blocco di stipendi e turn over nel pubblico impiego, il patto di stabilità che strangola gli enti locali, le entrate dello Stato sono diminuite. (…). L’Italia ha ridotto la spesa di ben 23 miliardi, ma nello stesso periodo ha subìto una riduzione delle entrate di 83 miliardi. (…). Secondo il Cer, i professori hanno sovrastimato le entrate fiscali di una ventina di miliardi (…). Causando, quindi, un buco nel bilancio dello Stato. Che ci costringerà a dire addio agli impegni europei sul pareggio di bilancio. Anche lo stock di debito, di conseguenza, è destinato a salire. Nel 2012 e nel 2013 il rapporto debito/Pil resterà al 124 per cento (i prof stimavano nel 2013 un ottimistico 121,5). Ridurre il debito, cioè, è stato impossibile. (…). …in un’Italia diventata più povera. (…). Ma quali conseguenze avrà il mancato rispetto degli impegni europei? «Per ora nessuno», spiega Fassina. «Il vero problema viene dopo, dovrà pensarci il prossimo governo. E si chiama fiscal compact». Il trattato europeo recentemente approvato dal Parlamento, infatti, prevede una riduzione del debito pubblico superiore al 60 per cento del Pil di un ventesimo l’anno, per vent’anni. Una mannaia pesantissima, che nel Belpaese potrebbe significare un obbligo a tagli netti del debito per 40-50 miliardi l’anno. Qualcosa di inimmaginabile, a meno di non voler vendere la Sardegna, come diceva l’indimenticabile Tremonti nella parodia di Guzzanti, e chiudere tutte le scuole e gli ospedali pubblici. (…). Il quadro è questo. Con le sue tinte fosche. Quale luce si intravede alla fine del tunnel? Scrive Oreste Pivetta – l’Unità, “Le radici dell’infelicità” -: (…). …italiani tristi, italiani che si sono dimenticati la gaiezza spendacciona degli anni ottanta, quando comandava Craxi in barba al deficit che spiccava il volo, italiani più inclini a piangere su se stessi che a rimboccarsi le maniche e inventarsi lotte, come poteva capitare nei duri anni della ricostruzione, quando la vita era pesante, ma intanto si cresceva accanto ad altri, c’erano i “compagni”, con i quali rivendicare salari, diritti, persino cultura (…). L’infelicità degli italiani nasce da quello stato cui ci hanno condotto la crisi, la globalizzazione, la finanza padrona del mondo, lo spread, Berlusconi, il professor Monti, Fornero, la rinuncia a una politica di investimenti, l’economia in nero, la mafia, la camorra, l’evasione, la siccità, le alluvioni, i salari fermi, le pensioni immobili, la disoccupazione, la politica... e quel fantasma che s’è aggirato per decenni e che s’è infine materializzato, prima da noi che in Cina, prima in America che in Africa, che non è il comunismo, che è invece il consumismo, incontrastato trionfatore su ogni conflitto. La felicità, nella maniera più evoluta fare shopping, è partecipare alla festa del consumo. I tuoi hobby? chiedono in tv alla ragazzina campionessa di nuoto: ascoltare musica e fare shopping. La mutazione in senso ludico di una attività una volta solo funzionale... una volta, quando si comperava, chi poteva, un paio di scarpe solo perché si avvicinava l’inverno e ce n’era bisogno per non gelarsi i piedi... La crisi, nelle sue varie espressioni, ci costringe ad una revisione: non girano soldi, si torna all’indispensabile (…). Sarebbe il momento di inventarsi un nuovo modello d’esistenza che tenga conto del valore del limite, per noi, per l’ambiente. La felicità è un traguardo universale, da quando la prima scimmia o il primo uomo sono comparsi sulla terra. Poi ciascuno l’ha inseguita come meglio preferiva. Per San Francesco felicità era dare ai poveri, contemplare il creato. Martini parlava di contemplazione come capacità di osservare la realtà e operare per migliorarla, per accendere una piccola fiamma di speranza. Non teneva in gran conto lo shopping.(…). Bellissime le parole di Oreste Pivetta con le quali è detto che, nel tempo durissimo della ricostruzione post-bellica, intanto si cresceva accanto ad altri, c’erano i “compagni”, con i quali rivendicare salari, diritti, persino cultura. Perché non cogliere l’occasione della “crisi” per divenire, nel tempo che ci è dato di vivere, “diversamente” felici pensando anche a quelli che verranno dopo di noi? Possibile farlo?

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