"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 17 luglio 2012

Storiedallitalia. 18 Ue’ guaglio’! So’ Nicola.


“Ue’ guaglio’!”. “Scusi, con chi parlo?”. “So’ Nicola, Nicola Mancino: l’amico D’Ambrosio m’ha detto di chiamarti per fare qualcosa contro ‘sti malamente dei piemme di Palermo che si so’ fissati co’ ’sta pinzillacchera della trattativa”. “Guarda, Mancino, con tutto il bene che ti voglio, hai sbagliato indirizzo. Anzitutto non sono un ‘guagliò’, ma il presidente della Repubblica. E, come capo del Csm, non solo non ho alcun potere di interferire in un’inchiesta in corso, ma ho pure il dovere di difendere l’indipendenza dei magistrati. Dovresti saperlo bene, visto che del Csm eri il vicepresidente . . .”. “Ma guagliò, cioè presidè, chisti piemme insistono, dicono che so’ bugiardo, organizzano confronti co’ Martelli…”. “E io che ci posso fare? Se non hai nulla da rimproverarti, vedrai che la tua innocenza alla fine verrà fuori. Noi siamo i primi a doverci fidare della magistratura perché apparteniamo a una categoria privilegiata: sennò con che faccia diciamo a un cittadino qualunque che deve aver fiducia nella Giustizia?”. “Presidè, è ‘na parola, chilli vogliono incriminarmi pe’ falsa testimonianza! Ammè, capito, a Nicola Mancino!”. “Guarda, caro, se hai qualche lagnanza nei confronti di un pm, manda un esposto al procuratore, al gip, al presidente della Corte d’appello, al procuratore generale, al Csm, alle Nazioni Unite, a chi pare a te, ma lasciami fuori. Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ricordi? Lo dice la nostra Costituzione, su cui hai giurato un’infinità di volte. . .”. “Ma presidè, siamo amici, m’hanno rimasto solo, non mi parla cchiù nisciuno…”. “E pazienza, prenditi una badante, gioca a bocce, fai come ti pare, ma non permetterti più di disturbare il Quirinale. E lascia in pace il povero D’Ambrosio che non ce la fa più. Sennò ti denunciamo per stalking ai sensi della legge Carfagna…”. (…). Del mitico “compagno Giorgio”, divenuto il Presidente, ne ho scritto nel post del 22 di giugno. Non mi sento di aggiungere altro. Se non che ci saremmo attesi tutti quanti, Voi ed io intendo dire, che il mitico “compagno Giorgio” avesse risposto alla stessa maniera del Presidentissimo dell’esilarante editoriale “Al cittadino non far sapere” di Marco Travaglio pubblicato su “il Fatto Quotidiano”: “non permetterti più di disturbare il Quirinale”. A nessun altro cittadino sarebbe stato concesso di disturbare impunemente l’abitatore del Colle. Probabilmente è andata diversamente. Come? Non lo si sa. E forse non lo sapremo mai. Un tempo soleva dirsi: “non far sapere al contadino quanto è buono il cacio con le pere”. Cose da civiltà agro-pastorale. Ma sempre “civiltà”. Poiché, nello specifico del proverbio, avveniva il connubio tra quel mondo agro-pastorale simbolizzato dal cacio, il cibo del mostruoso Polifemo accecato dall’Ulisse navigante, e l’insorgente civiltà dell'effimero che si ritrovava nella pera succosa. Si era nel più raffinato dei secoli, il Cinquecento, quando “lor signori” superavano la diffidenza verso le forme del cacio abbinandolo alle pere in alternativa alla carne che rimarrà per un bel pezzo ancora il cibo esclusivo dei ricchi. Si diceva della “civiltà”; che si è persa sotto tutti gli aspetti nel bel paese. Scriveva Carlo Galli su la Repubblica del 22 di giugno – in “Chi gioca allo sfascio” -: (…). Vi è (…) un livello prudenziale, di stile; e qui si può affermare che vi è stata qualche telefonata, e qualche risposta, di troppo. Il senatore Mancino si è mosso come se fosse ancora in grado di esercitare un qualche controllo sulle toghe, o come se fosse molto preoccupato di quanto può uscire da indagini e testimonianze; e cita nomi illustri di politici del passato, come a coprirsi o a coprirli. E chiede aiuto a un illustre interlocutore, D’Ambrosio – magistrato in pensione, consigliere giuridico del Quirinale (dove è giunto dai tempi di Ciampi), a suo tempo estensore dell’articolo 41 bis (sul carcere duro ai mafiosi) –, il quale si mostra invero prodigo di consigli e di suggerimenti verso Mancino. Con una dimestichezza e un’amicizia ben spiegabili, ma che, riportate dai quotidiani, non fanno, nel complesso, un bell’effetto. Poiché si prestano a letture in chiave di privilegio, di casta, e insomma contengono spunti – senza che tutto ciò abbia qualcosa a che fare con Napolitano – che possono essere strumentalizzati in un’ottica di populismo isterico e di antipolitica generalizzata. (…) …c’è un livello etico-politico di lettura dell’intera materia. (…). L’autorevole corsivista riconosce che ci sia stato “un livello prudenziale, di stile; e qui si può affermare che vi è stata qualche telefonata, e qualche risposta, di troppo”. Molto elegante. “Poiché – sentite questa - si prestano a letture in chiave di privilegio, di casta,…”. E quale altra lettura sarebbe possibile dare alla invereconda storia? E non contento delle cose sin qui affermate il nostro si spinge a teorizzare, nell’articolo Suo ultimo “La verità e le regole” sul quotidiano la Repubblica: (…). Mancino, chiamato a testimoniare in tribunale sul suo operato di allora ministro dell’Interno, e quindi comprensibilmente infastidito, non ha commesso un illecito a cercare contatti col Quirinale, e a chiedere consigli. Certo, si è trattato di comportamenti inopportuni e imbarazzanti; non censurabili, ma espressione di abitudini tipiche più dei potenti che dei comuni cittadini. In modo speculare, di fronte alla ricerca di quei contatti, non si può non vedere che da parte di qualche collaboratore del Presidente ci siano stati comportamenti altrettanto impropri e imprudenti. (…). Arrampicandosi sugli specchi arriva a sostenere che “si è trattato di comportamenti inopportuni e imbarazzanti; non censurabili, ma espressione di abitudini tipiche più dei potenti che dei comuni cittadini”. A quale altro cittadino della Repubblica sarebbe stato possibile avere quei “comportamenti inopportuni e imbarazzanti”? E quale cittadino di questa malandata Repubblica avrebbe trovato udienza presso “qualche collaboratore del Presidente” che avrebbe messo in atto “comportamenti altrettanto impropri e imprudenti” per favorirlo evidentemente? Il problema sta tutto qui: diseguali di fronte alla legge. Alla faccia della Carta. Ma proprio sullo stesso numero del quotidiano la Repubblica – “Mancino e il consigliere” - Attilio Bolzoni scrive: (…). Vent’anni:19 luglio 1992 e 19 luglio 2012, tutto è come prima, tutto è indicibile in questa Italia che celebra pomposamente i suoi eroi ma non vuole mai scoprire la verità. La storia della trattativa fra i Corleonesi e pezzi delle istituzioni è tutta qua, una storia da dimenticare, da seppellire, da cancellare per sempre. E ogni volta che qualcuno la fa riemergere, ci sono sempre tentativi di indagati eccellenti per depotenziare un’indagine o addirittura strapparla ai legittimi titolari. Se rileggiamo quelle telefonate fra un sospettato di avere cercato il patto con la mafia e un altissimo funzionario di Stato, se riascoltiamo quelle conversazioni fra l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, c’è poco spazio per commenti o interpretazioni: sono loro stessi che ci spiegano tutto su ciò che stavano facendo per allontanare l’ex ministro dall’inchiesta di Palermo, sono loro stessi che ci fanno capire ogni dettaglio con le loro parole. (…). Il consigliere giuridico del Quirinale parla molto al telefono e fa sempre riferimento al Presidente, accenna alla ferma decisione del procuratore nazionale Pietro Grasso di non intromettersi nell’inchiesta palermitana, spiega che solo il procuratore generale della Cassazione potrebbe in qualche modo intervenire scavalcando lo stesso Grasso. L’ex ministro è molto agitato, teme di essere incriminato dai pm di Palermo per la trattativa fra Stato e mafia. Il consigliere giuridico del Quirinale gli comunica un giorno che il segretario generale della Presidenza della Repubblica Vincenzo Marra ha inviato una lettera al procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, chiedendogli informazioni «sul coordinamento delle inchieste fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze sulla trattativa». E dice a Mancino: «…Per cui in realtà quello che adesso uscirà, se esce, esce la lettera del Presidente, esce la lettera di Marra a nome del Presidente. E cioè che gli dice: dovete coordinarvi, tu Grasso, cioè fai il lavoro tuo ecco». È il 19 aprile di quest’anno quando il nuovo procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani convoca Grasso sulla questione del coordinamento sollevata da Mancino e condivisa da D’Ambrosio. Il procuratore Grasso ribadisce la sua posizione: il coordinamento fra quelle procure c’è già. Non ci sono gli estremi per avocare l’inchiesta come sperava anche un consigliere del presidente. Una storia non proprio commendevole, “compagno Giorgio”!

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