"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 26 luglio 2012

Cosecosì. 23 Il rischio dell'incompetenza.


Scrive Umberto Galimberti nella Sua riflessione “Il rischio dell'incompetenza” del 30 di luglio dell’anno 2011: Tra la competenza tecnica racchiusa negli strumenti che utilizziamo e l'incompetenza di ciascuno di noi, c'è un divario, rischioso e imprevedibile. Non so se l'accettazione incondizionata dei progressi tecnologici sia responsabile del conformismo diffuso nelle nostre società. Quel che so è che la competenza tecnica racchiusa negli strumenti tecnologici che abitualmente utilizziamo ha superato di gran lunga la competenza tecnica di ciascuno di noi. Questa disequazione tra la cultura oggettivata nei dispositivi tecnici e la cultura soggettiva dei singoli individui sta per infrangere, se addirittura a nostra insaputa non ha già infranto, il sogno dell'uomo di dominare con la tecnica il mondo, nell'incubo di essere dominato dai sui dispositivi tecnici che impiega, ma di cui non ha competenza. Il suo opportuno riferimento ai "selvaggi" può essere radicalizzato nel senso che, rispetto ai nostri congegni tecnici, i selvaggi siamo noi. E ciò è dovuto, come scrive Günther Anders ne L'uomo è antiquato (1956) "alla nostra incapacità di rimanere up to date, al corrente con la nostra produzione, dunque di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti e di raggiungere i nostri congegni che sono scattati avanti nel futuro e che ci sono sfuggiti di mano". La conseguenza è che "ormai seguiamo da lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto e proiettato in avanti, con la cattiva coscienza di essere antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici". Già cinquant'anni prima di Günther Anders, Georg Simmel in Filosofia del denaro (1900) annotava che "La macchina è divenuta molto più spirituale del lavoratore. Quanti lavoratori, persino all'interno della grande industria, sono in grado oggi di capire la macchina con cui hanno a che fare, di capire cioè lo spirito investito nella macchina?". E qual è il rischio che si corre quando la cultura oggettivata negli strumenti tecnici supera la cultura dei singoli individui? Il rischio, ce lo ricorda Günther Anders, consiste nel fatto che "la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere gli effetti del nostro fare. [...] Per cui la domanda non è più "cosa possiamo fare noi con la tecnica", ma "che cosa la tecnica può fare di noi". La lunga citazione per evidenziare, qualora ce ne fosse il bisogno, la nostra condizione di “consumatori” incalliti e di “utilizzatori senza cognizione” della tecnica insita negli strumenti che la stessa mette a nostra disposizione. Intendendo, al riguardo, non solo della utilizzazione di apparecchi e strumenti vari, ma anche di tutto ciò che la comunicazione, ancella povera e risorsa perversa della tecnica, porta alla nostra attenzione e/o consapevolezza. Per dire: quale impatto hanno, per esempio, le informazioni meteorologiche  sulla nostra vita quotidiana? Conosco persone che hanno ristretto il campo del loro spasmodico bisogno d’informazione sull’evolvere del “tempo meteorologico” al particolare che più particolare non si può, ovvero alla ricerca delle condizioni meteorologiche non più del proprio paese o della propria regione, ma l’evolversi sopra la propria città se non, in un prossimo futuro, sul proprio quartiere o sul proprio fabbricato. Un’assurdità. Per farne che cosa? è finito il tempo in cui si parlava del “tempo meteorologico” alzando semplicemente gli occhi al cielo. Ci si ritrova così nella condizione magistralmente rappresentata da Günther Anders e citata dal Nostro, ovvero di esseri viventi che si aggirano tra i “congegni come sconvolti animali preistorici". A questo punto mi viene di raccontare una storia. Amo raccogliere le storie di strada, di quelle che si ascoltano anche in occasione di un incontro imprevisto. Come mi è capitato in quel di *******. E la storia ha inizio con le osservazioni sul “tempo” meteorologico del luogo e del momento. Senza proiezioni future, però. Come si soleva fare un tempo che è stato. La storia dunque. Che affiora dai ricordi della persona casualmente incontrata. E di un certo “Don Antonio”, al quale la comunità del luogo riconosceva grande competenza nel prevedere l’evolvere del “tempo meteorologico”, per via di un suo passato nella marina mercantile. Raggiunta l’età della pensione il nostro “Don Antonio” soleva trascorrere le sue giornate concedendosi, quotidianamente, una o più partitelle a carte con l’allora giovincello narratore della storia e, al pari del nobil uomo immortalato ne’ “L’oro di Napoli” del grande De Sica, non disdegnava imprecazioni o quant’altro ad ogni sconfitta subita – un’onta gravissima - dal giovanissimo avversario. E fu così che, forse a seguito di una di quelle partitelle andata a male, alla consorte che dal balcone gli chiedeva conto dell’evoluzione del “tempo”, il “Don Antonio” della storia, sporgendo appena la mano col dorso verso l’alto, distrattamente rispondesse: - Non piove -. E per la sua distratta previsione due anziane sorelle che, intabarrate nelle loro vesti scure, con passo lento data l’età loro avanzata, solevano raggiungere il cimitero del luogo per i doveri verso i congiunti e gli amici scomparsi, si beccarono un tale diluvio d’acqua che a memoria d’uomo non se ne è raccontato di un altro per copiosità e violenza. Un ritorno, nella semplice storia di strada che ho riportato, della possibilità umana dell’errore a fronte di un utilizzo ingenuo se non perverso della tecnica e della scienza che si piccano d’essere infallibili ma che non cambiano di molto il nostro faticoso vivere.

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