"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 20 giugno 2012

Lavitadeglialtri. 6 La storia di Xitang.


Ritorno dopo un po’ di tempo in quello che è stato l’impero celeste. Un ritorno a volo radente per osservare da vicino cosa avviene nell’opificio più grande del pianeta Terra. Le ali non sono mie. Gli occhi non sono i miei. Avviene per me come avvenne a quel grande della scrittura, che scrisse di avventure straordinarie ambientate in lontanissime, esotiche terre senza mai lasciare i confini del Suo amato Paese. Le ali e gli occhi sono per me, che non sono quel grande, quelli di Giampaolo Visetti. L’ammirazione per la Sua scrittura, le sorprese che mi vengono dalle Sue corrispondenze, le meraviglie di quel mondo così lontano e che vanno morendo sono semplicemente le mie. Ha scritto il Nostro sull’ultimo numero del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica, nell’ultima Sua corrispondenza che ha per titolo “Sosteneva Terzani”: (…). Le nuove megalopoli della Cina espellono la vita e la bellezza dal loro cuore per ridursi a sconfinati e anonimi shopping centre. (…). Gli ideali sono (…) stati sostituiti dagli affari, la sconfitta del socialismo ha ceduto il passo alla degenerazione del capitalismo, la rivoluzione s'è risolta in un autoritarismo che arricchisce pochi e consegna alla disperazione molti. La nuova distruzione della Cina non tradisce così l'inutilità del comunismo d'Oriente, ma la cecità del capitalismo d'Occidente. Pechino, per non essere spazzata via dalla rivolta del ceto medio che ha creato, è costretta a garantire sempre più soldi per tutti. La stabilità cinese è affidata alla crescita del Pil, aggrappato ai consumi. È la ragione che obbliga il partito comunista a strappare la gente dalle campagne, a deportare le masse nelle nuove metropoli costruite come immensi centri commerciali, da cui è impossibile fuggire e proibito non spendere. La Cina di Mao veniva demolita nel nome del proletariato. Quella attuale scompare nel nome del consumatore. Il risultato è lo stesso: una costante amputazione culturale, promossa per conservare il potere nelle mani dei vecchi mandarini, autoribattezzati nuovi servi del popolo. I cinesi, prima della strage di piazza Tiananmen, erano ostaggi della povertà. Nell'anno del decennale cambio della leadership sono prigionieri dell'obbligo di fare debiti. Alla narrazione del fallimento del maoismo succede la cronaca del naufragio del mercatismo. La Cina è afflitta dalla malattia che uccide l'Occidente, condivide il suo vuoto di ragioni convicenti per non farsi dominare dal denaro e smarrisce la propria identità. (…). Muore così un Paese. Con una “rivoluzione culturale” all’incontrario. Forse è la Storia che si prende le sue rivincite. Muore così anche l’animo dei cinesi. Poiché è venuto il tempo dell’arricchimento senza freni. Dell’uomo sull’uomo. “Homo homini lupus” - letteralmente "l'uomo è un lupo per l'uomo" – scriveva nell’antica lingua dei latini il Plauto nell’”Asinaria”. Nulla nei secoli è cambiato. Nessuna predicazione religiosa, nessuna delle utopie della politica hanno ridotto a miti consigli l’animo umano. Oggigiorno, nell’opificio più vasto del mondo, ove si consuma lo sfruttamento più spietato degli uomini, delle cose della Terra, della cultura e della memoria, quel detto suona amaro e spietato al contempo. Scriveva Giampaolo Visetti in un’altra Sua corrispondenza – del 26 di Marzo dell’anno 2011 - da quel mondo lontano, corrispondenza che ha per titolo “Jeans ponente”: (…). La storia di Xitang è l'icona della migrazione più travolgente della contemporaneità, che ha spostato in Oriente tutto ciò che si fa per compiacersi di mantenere in Occidente tutto ciò che si pensa. Xitang, fino agli anni 80, era un villaggio di contadini e di pescatori: duecento persone sulle rive del fiume delle Perle. Huang Lin, ambulante di Hong Kong, decise di portare in questa campagna una macchina per cucire pantaloni. Oggi è la capitale mondiale dei jeans. Un milione di operai confenziona il 40% dei calzoni venduti sulla terra. Ogni marca ha qui il suo stabilimento principale: le più famose nate negli Stati Uniti, ma pure le aziende italiane che hanno trasformato la divisa del cow boy in quella dell'old manager. Non è la Silicon Valley della moda. Gli operai sono ammassati in vecchi capannoni a conduzione famigliare. Il padrone siede fuori e invita i passanti ad entrare. Offre sigarette, liquore, microscopiche tazze di un tè violento. Mucchi di donne, sulla strada, circondano montagne di tela: cuciono etichette di qualsiasi brand, eliminano fili con la pistola termica, infilano nei sacchetti 60mila paia di jeans al giorno. Nei vicoli attorno si fa il resto: bottoni, cerniere, rivetti, filo. Colonne di camion scaricano rotoli di tessuto nei cortili e spariscono gonfi di merce. Nessuno immagina, scivolando nei suoi denim con l'ambizione di un'originalità, di esibire l'ultimo emblema dello sfruttamento cinese di massa. Xitang è stato ridotto a essere la fucina unica dei jeans per due ragioni: nella regione vivevano milioni di persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno e nessuno si preoccupava per l'impatto delle fabbriche sulla natura. Da dieci anni nell'ex villaggio dei contadini e dei pescatori non cresce più niente di commestibile. Vista dal satellite, la metropoli globale dei jeans è una nuvola rossa, percorsa da uno scheletro viola. Il vapore indica il carbone usato per alimentare le tessitorie, le ossa segnano gli scarichi tossici della tintura del cotone. Nella contea, in trent'anni, non è stato installato un solo depuratore. Sacrificare gli uomini e la terra per far sentire alla moda il mondo è il piatto servito in tavola. Grazie a Xitang il prezzo del casual è restato basso, è nato il guardaroba usa e getta e l'Occidente è stato conquistato dalle catene dei grandi magazzini arredati da albergo di charme. Non è una favola a lieto fine. Da alcune settimane l'epicentro cinese del jeans made in Usa è deserto. L'era dei prezzi stracciati è finita. Offrire all'ingrosso pantaloni a 80 centesimi e t-shirt a 15 non basta più. Il clienti dell'Ovest non accettano nemmeno di coprire i costi. La crisi del vecchio consumismo demolisce il sistema-Xitang. Gli operai reclamano salari che permettano di sopravvivere e lo sconvolgimento del clima proietta il valore del cotone alle stelle. Gli stilisti foderano i jeans in poliestere, impongono al gusto finiture lucide, ma i conti non tornano. I materiali valgono più del prodotto e sui capannoni abbandonati sono affissi cartelli che offrono partite di denim a 5 centesimi il paio. In un anno il 40% delle tessitorie ha chiuso e 300mila lavoratori tornano a vagare per la Cina seguendo la corrente dei cantieri. Se una famiglia europea o americana cambia un jeans in meno all'anno, il saccheggio del modello cinese implode. Nuovi Xitang risorgono altrove. Vietnam, Cambogia, Indonesia, India e Filippine offrono moda a costo di trasporto. Wei Xiaofeng, proprietaria del colosso che ci ha vestiti negli ultimi vent'anni, siede sola su un cumulo di rotoli di tela azzurra, destinata a trasfomarsi in isolante per i grattacieli di Kuala Lumpur. L'impero della delocalizzazione si scopre vittima di se stesso e delocalizza. La Cina perde i jeans e Xitang chiude. Il mondo può ignorare il suo profilo riflesso in uno specchio. Dove avrà de-localizzato il capitalismo rampante per continuare a sfruttare convenientemente uomini e cose? In quale altro inferno del pianeta Terra avranno trovato “persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno”? Per portare poi quei miseri panni intrisi di quelle fatiche nelle boutique del cosiddetto mondo avanzato, civilizzato, cristianizzato? Da chi?

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