"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 29 maggio 2012

Doveravatetutti. 5 Se lo Stato è Schifani.


Quando mai lo Stato va alle feste dei partiti politici? È una cosa impensabile in qualsiasi Paese democratico occidentale. Alla festa di un partito, in questo caso il partito all’opposizione (Pd), eventualmente, se invitato (il che negli altri Paesi accade raramente), ci può andare il primo ministro del partito al governo, non certo lo Stato. Il grossolano e inquietante equivoco (se di equivoco si tratta) è dunque prima di tutto l’invito di un partito politico, il Pd (nella persona dell’onorevole Fassino) che chiama lo Stato (nella persona del senatore Schifani) alla propria festa annuale facendo credere ai cittadini che sta invitando il rappresentante del partito avversario per “dialogare” con lui. Ma è altrettanto inquietante che lo Stato (nella persona del senatore Schifani) accetti come se egli fosse ancora un rappresentante del partito di governo che andando alla festa per discutere con l’onorevole Fassino ricambia il fair play del partito avversario. Ma il senatore Schifani non rappresenta il Partito della libertà di Silvio Berlusconi, è lo Stato; e accettando l’invito così equivocamente offertogli diventa portatore di un enorme conflitto di interessi istituzionale, perché lascia intendere di essere effettivamente l’avversario. Ora lo Stato italiano (nella persona del sen. Schifani) non può essere l’“avversario” di nessun partito politico rappresentato in Parlamento, tantomeno quello di cui è esponente l’onorevole Fassino. Il rappresentante dello Stato e il deputato di un qualsiasi partito non hanno niente da dirsi e niente da discutere in pubblico, né nelle piazze italiane, né in televisione. L’unico luogo loro consentito è il Parlamento. In quella sede l’onorevole Fassino può fare al rappresentante dello Stato tutte le domande e magari tutte le interpellanze che desidera; solo in quella sede può dire allo Stato (nella persona del senatore Schifani) le parole che desidera (affettuose o severe, questo è un problema suo). È vero che il conflitto di interessi che Berlusconi con la sua persona ha introdotto in Italia si è ormai esteso per contagio. Di un parlamentare non sai più se è un deputato o un affarista, un onorevole o un banchiere, un portavoce politico o un faccendiere, un imputato o un avvocato difensore, un esponente dell’antimafia o un difensore dei mafiosi. Molti di loro ormai sono tre o quattro persone allo stesso tempo. Ed è anche vero che l’equivoco (continuo a chiamarlo così) provocato dall’onorevole Fassino nel proporsi quale interlocutore festaiolo con lo Stato, rivela una stupefacente misconoscenza delle più elementari regole istituzionali, facendoci domandare cosa costui ci faccia in Parlamento da una vita. Ma nel caso dell’invito siamo al di là della mancanza di una basica grammatica democratica, si è raggiunto qualcosa di preoccupante. (…). Ma quello che è più preoccupante in questa equivoca vicenda è l’intervento del presidente della Repubblica. Invece di far notare alla seconda carica dello Stato che lo Stato non può andare a chiacchierare con chicchessia a feste o sagre di paese, redarguisce aspramente la piazza perché ha mostrato il suo dissenso. È imbarazzante dover ricordare che lo Stato andava alle feste di partito negli ex Paesi comunisti perché lo Stato e il partito erano   la stessa cosa. Oggi il colonnello Gheddafi, che è lo Stato libico, partecipa alle feste di partito, perché quel partito coincide con lo Stato libico; e in quelle piazze, è sicuro, non è contestato da nessuno. Ma l’Italia (e l’Europa) non è l’ex Germania dell’Est o l’ex Ungheria. E non è ancora la Libia. Se lo Stato italiano va in piazza a chiacchierare con i politici, i cittadini possono risentirsi; è nel loro diritto. Del resto mi risulta che il senatore Schifani non sia stato fischiato perché amico di Berlusconi, ma perché rappresentante dello Stato, e la frase utilizzata era “fuori la mafia dallo Stato”. Frase per altro plausibile, essendo noto anche ai bambini che la mafia nello Stato, nel caso che attualmente non ci fosse, non si esclude che ci sia stata più di una volta, come non si esclude che lo Stato abbia stipulato con essa patti nefandi. Se ne sta occupando la magistratura, perché se gli italiani aspettano che la verità della nostra tragica storia venga dalla bocca dei politici, si possono mettere l’animo in pace. (…). Certo ci sono luoghi e momenti in cui lo Stato sarebbe opportunamente presente o addirittura ben visto nelle piazze italiane: all’anniversario dell’assassinio del giudice Borsellino, all’anniversario della strage alla stazione di Bologna, all’anniversario della strage di Piazza della Loggia di Brescia. Ma lì lo Stato non si vede. Questo stato confusionale in cui lo Stato italiano si trova ci induce a credere che più di una crisi della democrazia, di cui molto si parla, si tratti di una crisi delle istituzioni e dello stesso Stato. E mi pare possibile che un Paese in uno stato simile sia disponibile a qualsiasi avventura e a qualsiasi salto nel buio. (…). La luce è al minimo, e a qualcuno potrebbe venir voglia di spegnere l’interruttore. “Doveravatetutti” è un richiamo costante alla memoria di ciò che è stato, quando distrattamente si pensava e si faceva dell’altro. La distrazione colpevole dei tanti. In questo “doveravatetutti”, che avete appena letto e che risale all’8 di settembre dell’anno 2010, il compianto Antonio Tabucchi scriveva della allora – come lo è tuttora - seconda carica dello Stato. Titolo del Suo pezzo: “Se lo Stato è Schifani” – su “il Fatto Quotidiano” - , che ho ripreso in parte. Sulla insensibilità “istituzionale” del nostro non si hanno dubbi; ne ha scritto sul quotidiano l’Unità Emanuele Macaluso col titolo “La Costituzione secondo Schifani” - a seguito della boutade del signor B - in questi termini: Il Corriere, con un gran titolo, ci informa che il presidente del Senato Renato Schifani «ritiene ammissibile presentare in aula il semipresidenzialismo alla francese proposto dal Pdl attraverso un emendamento alla riforma Costituzionale già all'esame di Palazzo Madama». Quindi, secondo Schifani, basta un emendamento per cambiare la Repubblica parlamentare in Repubblica semipresidenziale . I costituenti che discussero il tema lavorarono mesi. Fra loro c'erano Costantino Mortati, Giorgio La Pira, Palmiro Togliatti, Aldo Moro, Vezio Crisafulli, Bozzi, Petrassi, Dossetti, Calamandrei, Gaspare Ambrosini, Vittorio Emanuele Orlando, Nitti, Paolo Rossi, Meuccio Ruini. Potrei continuare ad elencare i grandi costituzionalisti e uomini politici che affrontarono con competenza e rigore l'assetto politico-costituzionale da dare allo Stato. E lo fecero con coerenza, per cui ciò che segue alla scelta del sistema parlamentare ha una logica spiegazione. Se bisogna cambiare, occorre cambiare tutto l'assetto dato dai costituenti. E chi può assolvere a questo compito se non un'assemblea eletta dal popolo con il mandato di rifare la Costituzione? Invece, dopo una penosa conferenza stampa di Berlusconi e Alfano, i quali affannati da un tracollo elettorale fanno proposte che serviranno solo per la prossima campagna elettorale, c'è chi, senza sapere di cosa si parla (penso a Montezemolo e soci), si mettono in pista per correre dietro il Cavaliere disarcionato. Ormai non mi stupisco di nulla: l'attuale scena politica ci offre spettacoli e spettacolini di ogni genere. Ma che il presidente del Senato comunichi agli italiani che con un emendamento a una legge in discussione, in una assemblea di nominati, alla scadenza della legislatura, si possa cambiare la forma della Stato, è enorme. Incredibile, ma è avvenuto. La confusione è regnata sovrana; la nebbia non si è ancora diradata. Si brancola. “Doveravatetutti” quando il grande, compianto Antonio Tabucchi ne scriveva?

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