"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 20 maggio 2012

Dell’essere. 7 Lo specchio della vita.


Ha scritto Cinzia Sciuto nell’ultimo numero della rivista MicroMega – pagg. 74/75 - dell’anno 2011 nel Suo pezzo che ha per titolo Imparare dalle anime belle: (…). Le grandi lotte collettive erano possibili in tempi solidi, in cui l’identità individuale non era messa in discussione e in cui, quindi, a partire da una precisa coscienza di sé (costruita eventualmente anche in opposizione ai modelli sociali di riferimento), era possibile condividere anche una coscienza di classe o di gruppo. L’individuo, nella sua integrità e autonomia, è l’apriori di qualunque azione collettiva e lavorare per ritrovare se stessi, lungi dall’essere il contrario dell’impegno politico, ne è la condizione di possibilità. Quale politica è possibile, infatti, in un mondo di meri consumatori, di clienti? (…). C’è molto da riflettere sulle tragiche vicende di questi mesi. Operai, lavoratori autonomi, piccoli e medi imprenditori che, nell’assoluta solitudine delle loro coscienze, decidono di farla finita con la propria esistenza. Non sfugge che l’impoverimento della propria condizione di vita sia motivo di grandissima turbativa dello spirito e dell’equilibrio psichico dei singoli che, per una azione di “effetto alone” riesce a coinvolgere, nei tragici avvenimenti, numeri che suscitano legittimo allarme sociale. Ma non minore forza, nei tragici avvenimenti di questi mesi, avrebbe una coscienza di sé che fosse stata costruita su di una solida “coscienza di classe o di gruppo” che rendesse tetragoni a fronte delle situazioni difficili che la “crisi” dispiega nel suo irrefrenabile avanzare. Non se ne viene fuori dalla “crisi” se non con i numeri allarmanti dell’oggi solo perché la politica, quella delle idee e delle idealità, non è più “possibile,(…), in un mondo di meri consumatori, di clienti”. Dei fatti tragici che le cronache continuano a porre drammaticamente alle nostre coscienze ne ha scritto sul quotidiano la Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati col titolo Lo specchio della vita. Di seguito lo trascrivo in parte. (…). L'immagine di sé non è l'immagine che restituisce lo specchio ma quella che restituisce il corpo sociale, le persone che amiamo e che stimiamo; lo specchio che conta è lo specchio che ci restituisce la dignità del nostro essere uomini. Coloro che decidono per il suicidio sono uomini che hanno perduto la loro immagine, che hanno incontrato uno specchio in frantumi. Non possono più riconoscersi in nulla. Sono stati spogliati della loro stessa immagine perché hanno perduto la possibilità del lavoro come possibilità che umanizza e assegna valore alla vita. Il suicidio è il tentavo disperato di trovare una dignità smarrita. (…). Non solo di pane vive l'uomo, recita, com'è noto, la celebre massima evangelica. Gli psicoanalisti non sono certo i soli a verificarne la verità: la vita umana non si realizza solo attraverso l'appagamento dei bisogni primari, naturali, istintuali. La vita si umanizza attraverso l'acquisizione di una dignità simbolica che la rende unica e insostituibile. La vita si umanizza attraverso il suo essere riconosciuta dalla propria famiglia e dal corpo sociale di appartenenza. Di fronte alla tragedia dei suicidi causati dalla perdita del lavoro, da fallimenti professionali o dall'angoscia di non riuscire a sopportare l'aumento continuo dei debiti e l'onda sismica della crisi economica che stiamo vivendo, torna alla mente la potenza della massima evangelica. Non perché il pane non abbia importanza. E chi potrebbe negarlo, soprattutto in tempi di crisi, dove la stessa sopravvivenza degli individui e delle loro famiglie è messa a repentaglio? Eppure il dramma del suicidio è propriamente umano - e solo umano - perché in gioco non c'è solo il pane. La mancanza del pane può generare indignazione, lotta, contrasto, rivendicazione legittima di giustizia sociale, anche disperazione, frustrazione, scoramento. Ma non è la mancanza del pane in sé che può condurre una vita alla decisione di uscire dal mondo. Cosa motiva davvero i suicidi che riempiono drammaticamente le cronache di questi mesi? Marx aveva assolutamente ragione a rifiutarsi di considerare il lavoro un mero mezzo di sostentamento. Egli pensava che l'uomo trovasse in esso non solo il mezzo per guadagnare il pane necessario, ma anche e soprattutto la possibilità di dare senso alla propria vita, di renderla diversa da quella dell'animale, di renderla umana. È il lavoro che dà una forma al mondo, che trasforma la materia, che realizza impresa, costruzione, progetto, che sa generare futuro. È ciò che portava Marx a conferire al lavoro umano una dignità fondamentale. Per questa ragione il lavoro non è innanzitutto fonte di alienazione, ma possibilità di realizzazione della vita come umana. Non è ciò che deruba la vita ma ciò che la costituisce. Eppure abbiamo conosciuto stagioni culturali dove il lavoro in quanto tale - e non la sua espropriazione capitalista secondo la tesi classica di Marx - veniva rigettato come fonte di alienazione e di abbrutimento della vita. Parlo ovviamente del lavoro e non delle sue condizioni materiali che possono effettivamente animalizzare la vita, insultarla, sfruttarla barbaramente. La tesi del lavoro contrapposto alla vita e non come condizione della sua umanizzazione attraversa un certa ideologia marcusiana che ha condizionato il movimento del '68 e che è giunta sino a noi attraverso gli anni Settanta. L'umanità dell'uomo non si esprime attraverso il lavoro ma nel tempo della vita sottratto al lavoro. Il culto del tempo libero dall'oppressione del lavoro avvia una nuova retorica, assai pericolosa, che finisce oggi - come aveva indicato con chiaroveggenza il liberale-conservatore Jacques Lacan - per colludere fatalmente con l'iperedonismo di cui si nutre il capitalismo occidentale: il lavoro è solo un limite, un peso, un'afflizione, un male. Meglio liberarsene, meglio fare soldi per altre vie, più rapide e meno faticose. Meglio seguire la "via breve" di un'economia di carta, finanziaria, speculativa, che non passare dalla "via lunga"e irta di ostacoli come quella del lavoro. L'ideologia della liberazione del desiderio conduce dritta dritta verso il rifiuto cieco del lavoro come forma di abbrutimento dell'uomo. (…). Il rifiuto ideologico del lavoro come luogo di mortificazione della vita contrasta oggi in tutta evidenza con la disperata esigenza del suo diritto, della possibilità che vi sia e che si dia lavoro. Mentre nel tempo che ha preceduto la crisi il lavoro era descritto come un peso, l'esplosione della crisi rivela la centralità del lavoro nel processo di umanizzazione della vita. Oggi le persone si ammazzano non per liberarsi dal lavoro, ma per rivendicare - seppure in modo distruttivo - la loro dignità di uomini, per poter realizzare la propria essenza umana attraverso il lavoro. È questo - il diritto al lavoro - il solo specchio anti-suicidio efficace.

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