"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 21 maggio 2012

Cosecosì. 19 Il pino silvestre.


Scrivevo a quel tempo, alla pagina 111 del mio lavoro editoriale I professori – AndreaOppureEditore (2006) pagg. 194 € 8,00 -: (…). È lo scoramento profondo allorché si avverte un rovinare improvviso di una costruzione ideale, ancorché organizzativa, quale è per l’appunto la scuola pubblica italiana. È lo scoprire l’impari lotta tra il mondo chiuso, a volte autoreferenziale della scuola, e il travolgente e periglioso andare del mondo ad essa esterno, con le inevitabili ricadute sulle giovani generazioni, con il loro smarrirsi al pari degli adulti genitori o educatori di fronte ai rivolgimenti storici, politici, economici e di costume che al giorno d’oggi, fagocitati in un processo di globalizzazione irrefrenabile, non concedono tempo alcuno per una loro meditata acquisizione e metabolizzazione. E si impone il problema della lingua, e perché no, il problema dirompente e totalizzante dei moderni mezzi di comunicazione di massa. Nei miei ricordi di insegnante non potranno in alcun modo essere cancellate le amenità dei miei preadolescenti che a ben precise domande – “fatemi l’esempio di un pesce”, molto ingenuamente e candidamente mi solevano rispondere “Bastoncini Findus” - o allorquando si richiedeva una parolina con la lettera “d” come  iniziale rispondevano, quasi all’unisono, con uno squillante “Super dash”. Così come molto brillantemente ha descritto quei tali rivolgimenti “antropologici” – ché tali li definisce – Francesca Graziani nel Suo Dal diario di una prof – Pratiche Editrici, Milano (2000) -: “(…). Io insegno e lo so perché il mio mestiere mi colloca in un punto strategico di avvistamento, dato che ho sotto gli occhi ogni giorno un pezzo del futuro che cresce, con le sue potenzialità e i suoi problemi, e devo soprattutto fare i conti con il fatto che non siamo in presenza solo di un gap generazionale, ma di una vera e propria mutazione antropologica. Almeno la metà dei ragazzi e delle ragazze che frequentano la scuola oggi sono figli unici: cresciuti per lo più a manga giapponesi e Nintendo, hanno conversazioni telegrafiche con i genitori e vivono in un mondo velocissimo, bombardati da una massa di informazioni che smarriscono subito o frullano tutte insieme. Sotto un'apparente disinvoltura nascondono un senso di insicurezza e di smarrimento: il loro immaginario, che non a caso trova rappresentazione nel cinema e nella letteratura dell'orrore, è popolato di mostri che loro tentano di esorcizzare con complicatissimi rituali di loro invenzione. Strappati dall'erba dei giardinetti al tempo della nuvola radioattiva di Chernobyl (uno dei ricordi della loro infanzia), cresciuti in un mondo a gambe all'aria dopo la caduta del muro di Berlino, un mondo in cui anche gli/le adulti/e faticano a orientarsi, sono incapaci di immaginarsi un futuro e quasi per nulla interessati al passato. (…)”. Come non rinvenire in quelle nostre “impressioni” di educatori, vissute in tempi ancora non “sospetti” con la “crisi” ancora da venire, lo “smarrimento” esistenziale dell’oggi caratterizzato dalla mancanza di futuro e dalla precarietà del lavoro che consuma le vite ed i sogni delle giovani generazioni? Ed i miei preadolescenti di allora, divenuti nel frattempo gli adulti dell’oggi, hanno contezza del proprio trascorso vissuto speso in massima parte in preda del piccolo mostro domestico? Ché se ne avessero contezza potrebbero bene disporsi ad essere cittadini e genitori riflessivi e responsabili. Cittadini a pieno titolo e non solamente consumatori. E della “segnatura” della quale le generazioni più o meno giovani, vissute al tempo del consumismo più feroce, sono state cavie inconsapevoli e forse incolpevoli, come in una collettiva e vastissima operazione di “imprinting”, come per le oche del grande Lorenz, ne ha scritto sull’ultimo numero del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica Giacomo Papi in un pezzo di analisi che ha per titolo Il pino silvestre, che di seguito trascrivo in parte.

(…). Non ero sicuro che sarebbero piaciute. Sono state divorate. Anche i più diffidenti - quelli che al primo assaggio facevano la faccia disgustata - non riuscivano a resistere a quel sapore di bagnoschiuma al pino silvestre. Sembrava una droga in grado di fare viaggiare nel tempo. Riprecipitavamo negli anni Settanta. Quell'aroma sintetico riconnetteva a un'idea di natura incontaminata, popolata di cavalli bianchi selvaggi al galoppo su una spiaggia o alla freschezza delle primavere in Scandinavia. Era una sensazione artificiale creata dalla pubblicità che però sembrava innata e istintiva, legata com'era alla certezza dei sensi, invece che al ragionamento e all'apprendimento. Il suo carattere culturale e innaturale, insomma, era nascosto, sepolto sotto l'evidenza sensoriale. Per chi è stato bambino negli anni Settanta, la natura profumerà per sempre di pino silvestre, perché questo ha voluto e insegnato uno spot. È in questo trucco prospettico che si annida la potenza della pubblicità. La sua prepotenza culturale e la sua pericolosa bellezza. La sua capacità di persuasione e il suo essere intrinsecamente subliminale, anche quando non lo è. La pubblicità costruisce sinestesie, riflessi condizionati, ammaestra i consumatori nello stesso modo in cui il signor Pavlov ammaestrava i suoi cani, costruendo catene di sensazioni che culminano nel prodotto da vendere. La sequenza cavallobianco - famigliafelice - pinosilvestre - bagnoschiumavidal ricomincia a ritroso. Il profumo reale di pino silvestre (anche se è in una caramella gommosa) rimanderà per sempre all'idea di natura incontaminata e selvaggia sintetizzata molti decenni fa da un creativo probabilmente defunto da tempo. Nessun'altra arte ha toccato l'uomo, il suo corpo e la sua memoria, con altrettanta efficacia. Nessun'altra arte è riuscita a essere così profondamente politica da invadere e forgiare la nostra cultura, fingendosi natura. Nessun'altra arte è così prepotente. Te ne accorgi quando i pubblicitari utilizzano musiche che ami. Per quanto tempo ancora gli italiani non potranno ascoltare la romanza per violino in Fa maggiore di Beethoven senza pensare allo spot Vecchia Romagna Etichetta nera? Iniziava con l'immagine di uno sciatore, poi partiva la musica e una voce maschile suadente: "... E dopo, a casa" il calore di un caminetto acceso si miscelava a quello del "brandy che crea un'atmosfera". Per alcuni è la dimostrazione del valore pedagogico delle réclame: grazie a Vecchia Romagna il popolo conosceva un capolavoro immortale. È vero. Però lo ha anche neutralizzato e requisito rendendolo nullo da un punto di vista emotivo ed estetico. Nessuno, se non è ubriaco di Vecchia Romagna, potrà mai più commuoversi ascoltandolo. Mi rendo conto che proporre di regolamentare l'utilizzo commerciale di ciò che appartiene all'umanità intera ha un sapore moralista. Da Minculpop. Però la tentazione è forte. Perché a volte è forte si sente di essere stati depredati di una bisogno essenziale di bellezza. La musica più bella del mondo è per me l'adagio del concerto per pianoforte e orchestra 23 K 488 di Mozart. L'hanno scelta per uno spot dell'Air France. Un tempo mi faceva pensare, con tristezza e pace, a chi è morto e mi manca. Forse, in futuro, mi evocherà un aereoplano.

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