"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 6 maggio 2012

Capitalismoedemocrazia. 20 Il vero profitto.


Il vero profitto è stato il titolo che il quotidiano la Repubblica ha dato, qualche tempo addietro, ad una interessante intervista di Roberto Festa a Martha Nussbaum, intervista che di seguito trascrivo in parte. A me pare importante cercare di dare risposte a quegli interrogativi che la vicenda della “crisi” innesca attorno alle parole-chiave della crisi stessa. Ho avuto modo, in altri post, di dire la mia, ma “dire la mia” è un esternare convinzioni personali che il più delle volte non sono supportate dalla piena padronanza degli argomenti stessi, che abbisognano di un buon grado di scientificità. Una delle parole ricorrenti nella “crisi” è “crescita”: è una delle tante parole che hanno assunto contorni quasi magici. E “crescita” lo ha fatto in misura maggiore rispetto a tante altre parole. Poiché alla “crescita”, sperabile ed invocata, sembra siano legate le sorti felici degli umani di questo scorcio di secolo. Crescere per cosa? Crescere come? È un girarci attorno, spesso inutile e contro tendenza, affinché dalla “crisi” si possa uscire anche “diversi”, anche “migliori”. A tale proposito ho trovato alcune delle risposte che cercavo a sostegno di quel “dire la mia” nella intervista di Umberto De Giovannangeli a Edgar Morin pubblicata sul quotidiano l’Unità col titolo «Hollande all’Eliseo?  Io gli chiedo il coraggio dell’innovazione». Nel sottotitolo della intervista il grande sociologo e filosofo afferma: «Quella che stiamo vivendo non è solo una crisi finanziaria è una crisi di civiltà, il cambiamento ha senso se assume un carattere epocale. (…).». Per l’appunto. Un cambiamento che sia diverso. Non se ne esce, dalla “crisi”, senza una nuova coscienza, senza nuove responsabilità personali e collettive. Ed oltre afferma: «(…). Va ripensata l’idea stessa di crescita come quella di progresso. Non possiamo considerare il progresso come il carro trainato da una locomotiva tecno-economica. Così come non possiamo concepire la crescita come mera dimensione quantitativa, come ampliamento, magari con un riequilibrio distributivo, di un modello di consumo che si intende come immodificabile. (…). Credo davvero che sia giunto il tempo di rompere con il mito della crescita perpetua, ma soprattutto dobbiamo andare oltre la sterile alternativa di crescita/declino e promuovere la crescita parola che non va cancellata dal vocabolario progressista, ma coniugata diversamente. E contemporaneamente ridurre i prodotti economici futili, gli effetti illusori, moltiplicati dalla pubblicità, quanto meno per frenare l’economia “usa e getta”. È questo ciò che intendo per un cambiamento epocale, che investe il pensiero oltre che le merci». Più chiaro di così! Per affermare poi sapientemente: «(…). Una nuova politica economica, a mio avviso, dovrebbe includere la rimozione della onnipotenza della finanza speculativa, salvaguardando nel contempo la competitività del mercato, superando l’alternativa di crescita/declino, determinando ciò che deve crescere: un’economia plurale, compreso lo sviluppo di una green economy, l’economia sociale, commercio equo e solidale, cittadinanza d’impresa. Ma al tempo stesso, occorre indicare, in una ottica gramsciana, ciò che si deve abbattere per poter ricostruire: l’economia che crea bisogni artificiali, l’economia dell’usa e getta. Più che di sviluppo sostenibile, parlerei di consumi insostenibili, nocivi, da eliminare tout court». Leggiamo, di seguito, le attente considerazioni che Martha Nussbaum fa a proposito di un’altra parola oggigiorno abusata: il cosiddetto Pil. Per uscire dalla “crisi” “diversi”, “migliori”.

«Per troppi anni abbiamo sopravvalutato il Pil, che non è un indicatore reale della qualità della vita. Sono altre le cose importanti, che rivelano la ricchezza di un Paese: sanità, educazione, rispetto delle minoranze, emozioni ed immaginazione». (…).
Perché il Pil non è un buon indicatore della ricchezza di un Paese? «Per due ragioni. Anzitutto, il Pil è una media, non prende in considerazione distribuzione della ricchezza e ineguaglianze. Anni fa il Sudafrica aveva un Pil altissimo e pareva lanciato sulla strada di uno sviluppo travolgente. I numeri trascuravano però il fatto che il 90% della popolazione era esclusa da questa ricchezza. In secondo luogo, il Pil non riesce a descrivere aspetti centrali dell´esperienza umana. Ci sono Paesi economicamente molto forti, che trascurano completamente la sanità e hanno un sistema educativo diseguale. È il caso degli Stati Uniti. Ci sono Paesi con ottimi Pil e scarse libertà religiose e politiche. È il caso della Cina».
In che modo l´approccio delle capacità è un modello migliore, più capace di rappresentare la reale ricchezza di un Paese? «Perché permette di fissarci non più sui redditi, sui beni materiali, sulla percentuale pro capite del prodotto interno lordo, ma sulle "capacità" di uomini e donne: la loro libertà di scelta, le loro opportunità, che sono poi la combinazione delle doti e delle conoscenze di ciascuno all´interno di un determinato contesto sociale, economico, politico».
Lei identifica dieci "capacità", dieci "diritti universali" di cui ogni uomo dovrebbe godere. Tra questi, il diritto alla vita, alla salute, all´appartenenza. Ci sono però elementi - l´immaginazione, le emozioni - che pare difficile considerare diritti di rilievo pubblico... «Immaginazione ed emozioni sono aspetti centrali dell´esperienza umana, e non fanno semplicemente parte della sfera privata. Pensiamo per esempio ai problemi di salute emotiva delle donne. Violenza domestica, stato di minorità sociale, paura di aggressioni e stupri nutrono e guastano le emozioni delle donne. Perché le donne non possono camminare la notte, da sole, senza provare spesso un sentimento di terrore? Perché la sfera pubblica - polizia, politica, leggi - non le tutela a sufficienza. Stesso discorso per l´immaginazione. Se la scuola educa i ragazzi costringendoli a una memorizzazione piatta, non stimola l´immaginazione. Con grave danno per la società e l´economia, dove la capacità di innovare e immaginare soluzioni nuove è cruciale».
Cosa risponde a chi rimprovera a questo modello un´eccessiva concentrazione sulle opportunità, piuttosto che sulle realizzazioni? «Guardi, io non credo alla necessità di dire alla gente come comportarsi e vivere. Credo si debbano rimuovere gli ostacoli, offrire opportunità. Poi ognuno decide, sulla base delle proprie competenze, tradizioni, predilezioni. L´approccio delle capacità dice che ogni essere umano deve godere di un certo diritto alla salute, alle libertà politiche e religiose. Non chiede alle persone di agire in un certo modo, né si immischia con le coscienze individuali. Le faccio un esempio: l´obbligo di votare. Ci sono religioni, come quella degli Amish negli Stati Uniti, che impongono di non partecipare alla vita politica. È un loro diritto. Quello che le istituzioni statali e di governo devono fare è offrire strumenti di partecipazione, un´educazione adeguata, il diritto di arrivare fisicamente al seggio, la trasparenza delle procedure di voto. Poi, spetta al singolo decidere se collocare la scheda nell´urna».
L´approccio delle capacità è più un modello di rilevazione della ricchezza o più una teoria di giustizia sociale? «È entrambe le cose. Per gli economisti, è stato un modello utile a misurare la qualità della vita nell´ambito di una teoria di Welfare avanzato. Per me, è stato un modello di giustizia e un appello all´azione. Quando si usa il termine giustizia e si afferma che un Paese che non rispetta determinati standard su sanità ed educazione non è giusto, si dà un enorme impulso all´azione. Penso al caso del Giappone, per decenni in cima a tutte le tabelle del Pil, ma che precipitò nelle classifiche, quando le istituzioni di sviluppo mondiali cominciarono a prendere in esame indicatori come il gender, il genere. Be´, negli ultimi anni molto è stato fatto in Giappone per migliorare la condizione delle donne. La teoria dell´approccio delle capacità, con la lista dei diritti che devono essere garantiti a ogni persona, ha fissato gli standard minimi per una vita decente ed è stata una grande alleata del movimento mondiale per i diritti umani».
Lei, Amartya Sen, gli altri teorici delle capacità rilanciate una teoria del Welfare in un momento di riduzione della spesa sociale in tutto il mondo. Non vi sembra una posizione antistorica? «No. Sicuramente l´approccio delle capacità non corrisponde a certi trend del mio Paese, gli Stati Uniti. Ma sono convinta che, nonostante le difficoltà, l´Europa rappresenti ancora un luogo dove sicurezza e protezione sociale sono beni da tutelare. È a quel mondo che guardano quelli come me». (…).

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