"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 29 aprile 2012

Capitalismoedemocrazia. 19 Della «wage inequality».


Default. Spread. Debito pubblico. Deficit pubblico. Tirare la cinghia. L’unico termine del quale si ha completa contezza. Degli altri, sappiamo che sono gli spettri, sempre inquietanti assai, che si aggirano ai giorni nostri. Aggiungeteci, da oggi, «wage inequality» e siamo così al completo. Della «wage inequality» ne ho letto sull’ultimo numero del settimanale Affari&Finanza grazie alla penna sempre arguta e sempre documentata di Massimo Giannini. Titolo del Suo articolo di spalla: “Se il manager è pagato 380 volte più dell’impiegato”. Di seguito lo trascrivo nella sua interezza. Non perdo l’occasione di dire la mia. Quei termini che riempiono le nostre giornate, anzi le nostre vite per intero, non dicono tutto. Anzi non dicono nulla sociologicamente parlando. Non dicono essi, nella loro fumosità e nell’indeterminatezza presso il grande pubblico del reale loro contenuto, le cause reali, le responsabilità sociali e politiche che hanno determinato la “crisi” che impoverisce le nostre vite e che nega un destino diverso e migliore alle giovani generazioni di oggi. Non dicono, essi, che nel mentre le moltitudini tirano e stringono ancor di più quella famosissima cinghia c’è chi si arricchisce sempre di più determinando uno stato di gravissima asocialità che in altri tempi storici avrebbe innescato reazioni anche violente. Oggigiorno tutto ciò non accade. Ma il segno di “classe” della “crisi” è nella realtà di tutti i giorni e gli analisti attenti non mancano di denunciarne gli aspetti più inquietanti; ma è la miopia collettiva che tarda a mettere a fuoco lo stato delle cose. Ha scritto Joseph Roth (1894-1939) – da non confondere con Philip Roth, ché ce ne corre abbastanza - nella Sua celeberrima opera “Fuga senza fine” (scritto “solamente” nel 1927 se ne consiglia caldamente la lettura): (…). Lassù, dietro le nuvole, vive Dio, la cui bontà infinita è diventata proverbiale. Un po’ più in basso vivono gli uomini viziati, che stanno bene e sono così immuni dal contagio della povertà che presso di loro fioriscono le virtù prodigiose: la comprensione per la povertà, la misericordia, la bontà d’animo e persino la mancanza di pregiudizi. Ma in mezzo, tra questi uomini generosi e gli altri che hanno il più urgente bisogno di generosità, sono infilati come isolante quelli del ceto medio, che praticano il commercio del pane e provvedono al sostentamento della gente con vitto e alloggio. L’intera “questione sociale” sarebbe risolta se i ricchi che possono donare un pane fossero anche i fornai del mondo. Ci sarebbero molte ingiustizie di meno se i giuristi della corte suprema sedessero nei piccoli tribunali penali e i capi stessi della polizia arrestassero i ladruncoli. Ma non è così. (…). Infatti “non è così. Poiché quelli del cosiddetto ceto medio, molto più largo oggigiorno rispetto a quello al quale faceva riferimento il grande Joseph Roth, hanno così tanto amato i ricchi da tentare di copiarne gli stili di vita, le mollezze, le stravaganze, le civetterie, a gonfiarsi come loro tanto da scoppiarne ora che la crisi lascia quelli indifferenti alle pene del vivere quotidiano e stramazza sempre di più i loro incauti imitatori. Avete visto sullo schermo del piccolo vostro mostro domestico la pubblicità di una automobile dal costo molto ma molto contenuto? Lei, la vampira che accompagna ad un party di ricchi l’incauto acquirente, non ha fatto in tempo di suggerire allo sbadato l’acquisto di una macchina più costosa. Poiché i partecipanti del party si allontanano dalla coppia disgustati al solo apprendere l’esigua spesa che ha consentito loro l’acquisto del nuovo mezzo. Roba da pazzi! 

Gli studiosi la chiamano «wage inequality». Vuol dire «disuguaglianza nelle retribuzioni». Al di là del dramma dei senza lavoro, questa è la vera cifra dei tempi di ferro in cui viviamo. L’ingiustizia sociale che dilaga, in un Occidente impoverito e accidioso, si nutre soprattutto di questa paurosa e crescente asimmetria nei livelli di reddito e nelle condizioni di vita delle persone che lavorano. La virtù del capitalismo, che pure è esistita fino a un decennio fa, consisteva in questo: non era affatto perfetto, ma era comunque il migliore degli «ismi» possibili, perché garantiva a un maggior numero di donne e di uomini di beneficiare di una distribuzione della ricchezza relativamente migliore di qualunque altro sistema sperimentato nella storia dell’umanità. Ora tutto è cambiato. S’avanza una nuova forma di «lotta di classe», che ha ragioni pratiche e non ideologiche. La scorsa settimana è uscito il rapporto annuale «Executive Paywatch», curato dalla AflCio, che rivela numeri imbarazzanti. Nel 2011 gli emolumenti medi dei Ceo americani (in «servizio» presso i colossi industrialfinanziari riuniti nell’indice Standard & Poor’s 500) sono arrivati a quota 12,9 milioni di dollari, con un aumento del 14 per cento rispetto all’anno precedente. Un reddito pari a 380 volte quello di cui, nello stesso periodo, hanno beneficiato i lavoratori dipendenti e gli impiegati. Nel 2010 sul 2009 l’incremento degli stipendi dei top manager era stato ancora maggiore: 22,9 per cento. Nel 2009 i compensi medi dei Ceo erano 320 volte maggiori di quelli dei loro impiegati. Dunque, una «bolla» inarrestabile. E anche incredibile, perché lievita in una fase di crisi economica che non ha precedenti, almeno dal Big Crash del 1929. I sacrifici veri, quelli più pesanti, li stanno facendo solo i «soliti noti». Quelli che non hanno bonus e stock option, ma stanno a busta paga e campano del loro salario. Nel 2011, secondo il Rapporto, questa categoria sociale ha beneficiato di aumenti retributivi pari al 2,8 per cento, sufficienti appena a coprire l’inflazione. Il dato americano non inganni. Avviene lo stesso anche nel resto delle moderne democrazie europee, compresa la piccola Italia. Magari il divario medio tra manager e dipendenti non raggiunge quota 380, ma ci si avvicina (e in qualche caso eccezionale, vedi Sergio Marchionne, lo supera anche di molto). Quanto può reggere una società attraversata da queste disuguaglianze? E come si può pensare di salvare il capitalismo, riformando qua e là i suoi «istituti», senza affrontare e risolvere anche il problema della «wage inequality»? L’establishment ha poco da meravigliarsi, se esplode il conflitto sociale. Come diceva il leggendario principe de Curtis, in «Totò e i re di Roma», «poi dice che uno si butta a sinistra».

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