"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 1 marzo 2012

Strettamentepersonale. 3 Cari ricordi di scuola.

Da Piccola città di Francesco Guccini: Piccola città, vetrate viola, primi giorni della scuola, la parola ha il mesto odore di religione; vecchie suore nere che con fede in quelle sere avete dato a noi il senso di peccato e di espiazione: gli occhi guardavano voi, ma sognavan gli eroi, le armi e la bilia, correva la fantasia verso la prateria, fra la via Emilia e il West...

Da La locomotiva di Francesco Guccini: Conosco invece l'epoca dei fatti, qual'era il suo mestiere:i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere, i tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti sembrava il treno anch'esso un mito di progresso lanciato sopra i continenti, lanciato sopra i continenti, lanciato sopra i continenti...

Strane, stranissime situazioni combina la vita, come questa dell’uno di marzo. Lucio Dalla ci ha lasciati. Un altro grande vecchio (69 anni il prossimo 4 di marzo) abbandona per sempre questi scenari terreni lasciandoci innumerevoli frutti della Sua intelligenza, della Sua infinita creatività. Ero molto legato a Lucio Dalla. Mi mancherà. La strana situazione alla quale dianzi accennavo è che avevo per oggi in mente di scrivere di Francesco Guccini. Un mito. Pochi anni ci separano anagraficamente – 1940/1946 -; ambedue abbiamo attraversato, dagli anni quaranta in poi, il secolo ventesimo. Ne siamo stati spettatori entrambi, ma Francesco Guccini ne è stato anche un interprete, un cantore, un testimone importante che ha colorato la nostra fantasia, ha arricchito il nostro immaginario. Molto mi lega a Francesco Guccini, ma soprattutto una propensione per quegli ideali di giustizia e di equità che appartengono, in una certa forma, solo alla gente che si dichiara di “sinistra”. Per tale motivo ho amato ed amo tuttora, alla mia non più verde età, la musica ed i testi delle Sue canzoni. Ne volevo parlare, di Francesco Guccini, in questa data, dopo aver letto lo stralcio proposto dal quotidiano la Repubblica e tratto dall’ultima Sua fatica letteraria “Dizionario delle cose perdute” – Mondadori Editore (2012) pagg. 140 € 10,00 -; avevo scoperto che anche i ricordi di fanciulli ci accomunano, in una percezione della vita e delle cose della vita stessa che arricchisce e completa quella condivisione di ideologie e pensieri forti che tanto sostegno e conforto hanno dato alla mia personale esperienza di vita. Mi ero lasciato andare anni addietro, nella presentazione del mio volume “I professori” – AndreaOppureEditore (2006) pagg. 190 € 8,00 – ad un ricordo scolastico dell’infanzia che la magia della scrittura di Francesco Guccini ha perentoriamente richiamato alla memoria a conferma di quella percezione delle cose della vita che sento di condividere con l’impareggiabile artista. Scrivevo in quel mio lavoro letterario: E’ tornare con i ricordi ad un fanciullo goloso, al riparo del ripiano di un nero banco scolastico di legno, come lo erano ai tempi della mia fanciullezza. Una leccornia amorevolmente infilata nella cartelletta dalla mamma premurosa, il suo gustarne l’infinita prelibatezza, al riparo dagli occhi vigili di un canuto maestro. Un ricevere, inattesa, una pesante campana di ottone, strumento di richiamo solenne ed imperioso al silenzio per noi scolaretti, sulla parte del capo non protetta dal ribaltabile ripiano nero del banco. Un improvviso riemergere del fanciullo di allora con le gote rigonfie, un palpitare del cuore come non mai, un sentirsi colpevole ed inerme per un atto compiuto con l’infinità semplicità di tutti i fanciulli di questo pianeta chiamato Terra. Un ricordo che ritorna ancora chiaro dopo tanti e tanti lustri, a fissare in una perenne e folgorante immagine una oramai lontana giornata di scuola, che il trascorrere veloce del tempo non cancellerà mai più. Di seguito riporto, in parte, lo stralcio tratto dalla lettura del quotidiano la Repubblica.

(…). Ma facciamo, come nei romanzi d'appendice, un passo indietro. Nelle scuole di allora c'erano i banchi. Di legno, monumentali, credo pesantissimi. A due posti (tu e il tuo compagno di banco, il famoso compagno di banco. Ma chi era, il mio compagno di banco, alle elementari? E il vostro?), avevano il ripiano a scrittoio ribaltabile, laccato (laccato?) di un mortifero nero lucido, tanto per far vedere che la scuola non era lì per divertire o far divertire ma per promettere, dalla prima alla quinta almeno, dolore e sofferenza, che lì non si scherzava. Perché era anche scomodissimo sedere su quei sedili di legno, antisalutare, e partivano scoliosi da coltivarsi poi per tutta una vita, lì immobili o quasi per quattro ore di fila, se non la breve pausa, alzando una timida mano, per andare in bagno - che poi, almeno nel mio caso, era un volgare gabinetto. Quando ci lasciavano andare. Il probabile progetto didattico degli adulti però cozzava con l'istintivo anarchismo dei bambini (di noi, allora, bambini), e il ripiano a scrittoio era non levigato e polito come ogni Alta Autorità Scolastica (mai stati, evidentemente, bambini, loro) avrebbe desiderato e sognato, ma era un intreccio di segni, scavi, calanchi e Grandi Canyon, scritte anche oscene (oscene come può immaginarsele un bambino, naturale), ottenuto in anni e anni di incessante e metodico lavoro di intere generazioni, di ere geologiche diverse, realizzato in maniera artigianale ma efficace con le punte più disparate, da un banale chiodo al più sofisticato coltellino. A volte anche con la punta di un semplice pennino (ma del pennino parlerò fra poco). Per i lavori di incisione si andava da un banale sfregio a più complesse losanghe, ghirigori, costruzioni di quadrati e rettangoli, fino a scritte vere e proprie come un sobrio Culo o il più ricercato Gianni puzza. Il piano inclinato finiva con un'asse in pari (sempre nera) che aveva al centro e all'estrema destra (i mancini non dovevano esistere in natura) un buco. Era il sito per il calamaio. Questo, di vetro spesso, coi bordi ingrossati nella parte superiore per appoggiarsi al foro e la parte inferiore tondeggiante a paiolo, veniva riempito di inchiostro (nero, ovvio) da un solerte bidello che periodicamente, con un enorme boccione, provvedeva al rabbocco. Non so che inchiostro fosse, forse era del più fino e puro ottenuto dai Laboratori e distillerie di Stato, che distillavano in partenza essenze pregiate e a volte anco odorose per la gioia di noi piccoli tesi nello sforzo di imparare (a leggere, scrivere e far di conto), solo che, o il bidello in parte lo vendeva e riempiva il boccione con un inchiostro di terza categoria, o dentro al calamaio avveniva un misterioso processo chimico per cui spesso l'inchiostro si trasformava in una massa maleolente e putrida, colma di strane e malvagie creature che, catturate dal pennino intinto, lo abbandonavano appena raggiunta la superficie e si trasferivano immediatamente sulla candida pagina del quaderno e tutta l'insozzavano. O magari si trattava soltanto di pezzetti di carta che, inseriti nel calamaio così da intingersi di inchiostro per poi essere allegramente lanciati contro un altro compagno, erano sfuggiti dalle mani bambine e lì dentro avevano trovato la morte e la putrefazione. E non bastavano i pennini più sofisticati per evitare tale scempio (da cui erano misteriosamente esenti gli alunni più bravi). (...).


1 commento:

  1. Ricevo e posto il commento dell'amico dottor Ennio Nicotera.

    Caro Aldo
    Non sapevo che tu fossi un cultore di Guccini. Io sono un guccinomane e pur riconoscendo che De Andrè è più bravo faccio fatica ad accettarlo. È perche nei primi anni 60 quando a Bologna Guccini faceva delle serate per i pochi, ma poi non troppo pochi, che a quei tempi lo conoscevano (era uscito da poco il suo primo long plaing "folk beat n. uno) e per pochi spiccioli in uno scantinato di Strada Maggiore io andavo ad ascoltarlo. Eravamo seduti su panche di legno posizionate tra due sedie, quattro o cinque file in tutto pigiati come sardine in scatola. Erano in tre a cantare, Lui, un certo Alex esule dalla Grecia dei colonnelli ed una giovane ragazza americana, tale Debbie Koppermann che è ricordata nella copertina di un suo vinile. Le serate finivano in cantate collettive di canzoni popolari, con lui mezzo sbronzo che dirigeva il coro. Altro ricordo di Bologna primi anni 60 anni. Era appena giunta la notizia che era stato giustiziato nella spagna franchista un oppositore del regime, Julian Grimau. Il partito si mobilitò subito e nel giro di poche ore organizzò in Piazza Maggiore (la piazza grande di Dalla) una manifestazione molto partecipata. Un grande popolo decise di sfilare per Via Indipendenza, una delle più importanti vie bolognesi che parte da Piazza Maggiore. Ricordo Lucio Dalla a quei tempi già noto a Bologna, piccolo brutto e senza parrucca in prima fila accanto al vecchio sindaco Dozza gridare lo slogan "Spagna Si, Franco No". Un affettuoso saluto. Il compagno Ennio

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