"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 14 dicembre 2011

Dell’essere. 1 Della felicità.



- Sono felice ogni ora di ogni giorno della mia vita, perché mi sento amato – è l’affermazione del protagonista del film-capolavoro The elephant man (1980) del grande David Lynch, un film in bianco e nero che ho rivisto in  questi giorni. Lui, l’essere felice del film, è un “mostro” vivente, la cui figura si ispira ad un essere realmente esistito nell’Inghilterra vittoriana e che rispondeva al secolo al nome di John Merrick - John Hurt nel film -, nato nell’anno 1862 tra le brume ed i fumi – presenti minacciosi in tantissime sequenze - dovuti ad un avanzato processo di industrializzazione selvaggia di quel paese e deceduto nel 1890, un “mostro” divenuto tale a causa del morbo chiamato “neurofibromatosi” che gli ha dato una scatola cranica sproporzionata e ricoperta di ripugnanti protuberanze, il corpo interamente ricoperto di escrescenze tumorali, un arto, il braccio destro, più lungo dell'altro, una articolazione della voce che emette suoni come un grugnito, e con tantissimi altre patologie che gli impediscono di dormire sdraiato  a rischio del soffocamento. Per il grande regista la realtà diviene a volte una triste, vuota  rappresentazione, la vita non è come si mostra ed appare, e sotto la sfavillante superficie della esistenza la realtà nasconde sempre ben altro. Nel film l’utilizzo del bianco e nero, con lunghe sequenze dominate da toni decisamente crepuscolari, rimanda a pensare a quegli incubi degli umani che creano i “mostri” anche nella più ordinaria delle esistenze, intendendo così come il male si alterni di continuo al bene in un gioco perverso di luce ed ombra, di veglia e sogno, di realtà cosciente e di inconscio. Nel film è mostrato come l'orrore e la mostruosità possano stendere un velo sulla realtà di un essere, nascondendocene a volte la natura gentile e delicata. È che, seguendo la trama del film, mi è tornata alla mente una recentissima lettura che ha per titolo “È compatibile la vita umana con la felicità?” del professor Umberto Galimberti, pubblicata sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” che di seguito trascrivo in parte. Poiché, nonostante tutto, almeno nel film John Merrick si dice “felice”, pur vivendo sotto la tirannica custodia di un insensibile uomo, ovvero lui il “mostro”, che lo utilizza per esporlo come fenomeno da baraccone senza alcuna salvaguardia della dignità umana e percuotendolo ogni qualvolta non esegue gli ordini  impartitigli. Eppure John Merrick si dice “felice”. E qui mi fermo nella trama complessa del film. Cosa lo rende “felice”? L’essere “amato”. Gli basta ed avanza. Confesso che la “cosa” mi pare inverosimile. Ma l’arte è l’arte. Può, nonostante la sua mostruosità, John Merrick considerarsi un essere “felice”? è legittimo porsi la domanda? In quanti, pur non avendo la mostruosità sua, sarebbero disponibili a dichiararsi “felici”? E quanti si dichiarano di non esserlo pur possedendo la bellezza del corpo, abiti eleganti e possedimenti ricchi e vasti? C’è sempre qualcuno che rimanda d’essere “felice” in una vita a venire. Non è toccato dalla mancata felicità di questo mondo. “Gode” delle infelicità come viatico per le felicità future. Pericoloso ed impervio assai addentrarsi per questi sempre tortuosi sentieri della mente.

“Scrive Seneca a Lucilio: - Devi imparare a vivere finché hai vita -. Le (…) considerazioni, secondo le quali l'uomo è infelice perché non vive la vita nel suo gratuito accadere, ma la traguarda a partire dalla morte che dalla vita lo congeda, trovano il loro riscontro in queste parole di Nietzsche: - Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall'alba al tramonto, e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piolo dell'istante, e perciò né triste, né tediato. Il veder ciò fa male all'uomo, poiché al confronto dell'animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l'animale, né tediato, né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l'animale -. In questo ‘come’ sta la differenza e l'inevitabile sguardo che incontra il dolore dell'esistenza, mai paga del presente perché proiettata in un futuro in cui l'uomo incontra la sua essenza, che è poi quella di oltrepassare di continuo le situazioni e le condizioni date. A questo bisogno insopprimibile di oltrepassamento è stato dato il nome di trascendenza, che, per chi crede, proietta in un altro mondo. Chi invece pensa che in questa terra tutto si conclude, ciò nonostante non rinuncia a proiettare nel futuro idee di progresso, benessere e più equa giustizia, in un mondo che, a differenza dell'animale, non è quello dato ma quello che quotidianamente l'uomo costruisce. Ma la morte lo attende e, a differenza dell'animale, l'uomo lo sa. Questa consapevolezza non gli impedisce di continuare a costruire mondi, ma non gli evita neppure la tristezza di doversi congedare da questi mondi che altri abiteranno, divenendo, se un sentimento ancora li percorre, custodi della sua memoria. Qui la felicità cede la sua pienezza, e, nel farsi incerta e inquieta, diventa malinconica.”

1 commento:

  1. "La felicità è amore, nient'altro. Felice è chi sa amare"Hermann Hesse.

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